A dolescente, Oscar (così firma i suoi primi quadri, prima di adottare il suo secondo nome) dimostra
una grande inclinazione per la caricatura. Ne trae persino un piccolo profitto. Il padre non lo ostacola e i professori lo incoraggiano.
È allora che fa un incontro decisivo, quello col pittore normanno Eugène Boudin. Questo esperto paesaggista gli dà un consiglio determinante per
convertire un certo talento in temperamento artistico, e lo incita ad abbandonare la caricatura: «È ottimo come inizio, ma presto ne avrai
abbastanza delle caricature. Studia, impara a vedere e a disegnare, dipingere, fare paesaggi». Monet non dimenticherà mai il suo primo maestro.
Riconoscerà in vecchiaia quel debito originario: «I miei occhi finalmente si aprirono ed io compresi veramente la natura; imparai al tempo stesso ad
amarla».
Nel maggio del 1859 il giovane pittore soggiorna a Parigi. Si affretta a visitare il Salon, che è l’avvenimento artistico più notevole dell’anno;
trova «sublime» la veduta di Honfleur dipinta da Daubingy, ammette che vi sono dei «bei Corot», confessa che i cani di Alfred Stevens sono «molto
naturali », stima «brutti» i Diaz e apprezza le composizioni di Troyon benché noti che «hanno le ombre un po’ nere». Era stato proprio Troyon, in
una precedente visita nella capitale, a consigliarlo e a guidarlo.
Ora, insieme a Monginot, preme perché Monet si iscriva all’atelier di Couture. Monet, invece, sceglie l’Académie Suisse, dove ha la possibilità di
lavorare con dei modelli.
È un periodo fecondo, di tirocinio e di scoperte, durante il quale Monet frequenta assiduamente la Brasserie des Martyrs, luogo d’incontro degli
artisti e degli intellettuali meno conformisti. «È lì che ho conosciuto quasi tutte quelle persone di cui parla Firmin Maillard nel suo libro
Derniers Bohémiens, ma soprattutto Firmin Maillard, Albert Glatigny, Théodore Pelloquet, Alphonse Duchesne, Castagnary, Delvau, Daudet e
altri cattivi soggetti come me».
Nonostante l’ebrezza che gli procurano le brillanti e fruttuose serate parigine, si preoccupa tuttavia di approfondire i rapporti col modesto e
solidale Boudin di cui si dichiara allievo ed amico.
Nel 1860 deve presentarsi alle autorità militari. A quell’epoca si procedeva per sorteggio. La sorte non aiuta Monet e i genitori rifiutano di
pagare un sostituto, visto che il giovane non vuole intraprendere una regolare carriera artistica. Viene assegnato allo squadrone dei Cacciatori
d’Africa e s’imbarca per l’Algeria. In questo paese che impara ad amare, si rafforza la sua convinzione di diventare un pittore: «Pensavo solo a
dipingere, tanto m’inebriava quello stupendo paese». Ma il clima non gli si confà: si ammala e viene rimpatriato.
Tornato a Le Havre presso i genitori dopo due anni d’assenza, fa grande amicizia col pittore olandese Johan-Barthold Jongkind, che gli ispira grande
rispetto. Jongkind è un artista poco conosciuto ma stimato nei circoli culturali. Nel suo Journal, nel 1871, Edmond de Goncourt sottolinea
il debito generale nei suoi confronti: «Una cosa che mi colpisce è l’influenza di Jongkind.
Attualmente qualsiasi paesaggio di valore deriva da questo pittore, traendone i cieli, le atmosfere, la natura». Il caso di Monet conferma
l’esattezza di questo giudizio. Nel 1862, finalmente, Monet può tornare a Parigi. Il padre, convinto dalle sue precarie condizioni di salute, ha
accettato di pagare un sostituto per il servizio militare.
A Parigi, Monet entra nell’atelier di Charles Gleyre. Questo pittore, la cui arte è definita dal critico Duranty «lieve, graziosa, fine, sognante,
alata», con «qualcosa d’immateriale », è ancora di quelli che insistono perché gli allievi si ispirino all’antico. Ciò non piace a Monet così come
non piace ad altri esordienti che vi incontra: Frédéric Bazille, Auguste Renoir, Alfred Sisley.
Monet fa amicizia con Bazille, ed è con lui che nell’aprile del 1863 si reca a Chailly, un piccolo villaggio nel cuore della foresta di
Fontainebleau, e «vicino ai luoghi più pittoreschi».
Nel maggio del 1864, è ancora Bazille ad accompagnarlo a Rouen. Visitano le «meraviglie gotiche» e il museo dove contemplano «uno stupendo quadro di
Delacroix». Poi Monet soggiorna per qualche tempo a Honfleur dove lavora a una tela floreale, Fiori di primavera, che si ispira allo stile
olandese.
In luglio una violenta lite familiare lo priva del piccolo sostegno economico del padre. Torna a Parigi alla fine dell’anno; divide uno studio in
rue Furstenberg con Bazille che non ha problemi di soldi. Ma le difficoltà non fanno che aumentare.
Nel 1865, a Chailly, Monet fa un incontro decisivo, quello con Gustave Courbet.
Quest’ultimo si trasferisce poi a Trouville dove vive col paesaggista Daubigny. Di queste giornate lascia il ricordo in una bella tela,
Courbet a Trouville. Monet è affascinato dal capofila del realismo. Studia la sua tecnica pittorica ed è colpito dal suo «ampio principio».
«Courbet dipingeva sempre su fondi scuri, su tele preparate col marrone, comodo procedimento che tentò di farmi adottare. Là sopra, diceva, potete
disporre le vostre luci, le masse colorate e vederne subito gli effetti». Sotto la sua guida Monet lavora con accanimento.
Adesso può firmare «Claude».

