Erano i primi giorni del febbraio 1918 eppure era già primavera […] Avvertito della mia visita, Claude Monet mi aspettava sulla porta. Mi ricevette
come soltanto lui sa fare quando è di buon umore: sorridente, lo sguardo acceso ed allegro, la sua stretta di mano calorosa e cordiale. Dopo il
caffè andammo in giardino e dal giardino attraversammo la strada e i binari della ferrovia, dove i treni non passano più, ed entrammo nel regno
delle Ninfee.
«Qui» mi raccontò, «potete vedere tutti i motivi che ho trattato tra il 1905 e il 1914, ad eccezione delle mie impressioni di Venezia. Ho dipinto
tante di queste ninfee, cambiando sempre punto d’osservazione, modificandole a seconda delle stagioni dell’anno e adattandole ai diversi effetti di
luce che il mutar delle stagioni crea. E, naturalmente, l’effetto cambia costantemente, non soltanto da una stagione all’altra, ma anche da un
minuto all’altro, poiché i fiori acquatici sono ben lungi dall’essere l’intero spettacolo; in realtà sono soltanto il suo accompagnamento.
L’elemento base è lo specchio d’acqua il cui aspetto muta ogni istante per come brandelli di cielo vi si riflettono conferendogli vita e movimento.
La nuvola che passa, la fresca brezza, la minaccia o il sopraggiungere di una tempesta, l’improvvisa folata di vento, la luce che svanisce o rifulge
improvvisamente, tutte queste cose che l’occhio inesperto non nota, creano variazioni nel colore ed alterano la superficie dell’acqua: essa può
essere liscia e non increspata e poi, improvvisamente, ecco un’ondulazione, un movimento che la infrange creando piccole onde quasi impercettibili,
oppure sembra sgualcire lentamente la superficie conferendole l’aspetto di un grande telo di seta spruzzato d’acqua. Lo stesso accade ai colori, al
passaggio dalla luce all’ombra, ai riflessi. Per ricavare qualcosa da questo continuo mutare bisogna avere cinque o sei tele sulle quali lavorare
contemporaneamente e bisogna spostarsi dall’una all’altra tornando rapidamente alla prima, non appena l’effetto interrotto riappare. È un lavoro
veramente estenuante, ma quanto è seducente! Cogliere l’attimo fuggente, o almeno la sensazione che lascia, è già sufficientemente difficile quando
il gioco di luce e colore si concentra su un punto fisso, la silhouette di una città, un paesaggio immobile. Ma l’acqua, essendo un soggetto così
mobile e in continuo mutamento è un vero problema, un problema estremamente stimolante perché ogni momento che passa la fa diventare qualcosa di
nuovo ed inatteso. Un uomo può dedicare l’intera vita a un’opera simile; io l’ho fatto per otto o nove anni e poi ho smesso improvvisamente colmo di
un’inspiegabile angoscia».
«Come mai?» chiesi.
«I colori non avevano più la stessa intensità per me; non dipingevo più gli effetti della luce con la stessa precisione. Le tonalità del rosso
cominciavano a sembrare fangose, i rosa diventavano sempre più pallidi e non riuscivo assolutamente a captare i toni intermedi o quelli più
profondi. Le forme, quelle riuscivo ancora a vederle con la stessa chiarezza e a disegnarle con la stessa precisione. Giunse infine un giorno, un
giorno benedetto, quando ebbi la sensazione che la mia malattia fosse provvidenzialmente passata.
Provai una serie di esperimenti per rendermi conto dei limiti e delle possibilità della mia vista e con grande gioia scoprii, nonostante fossi
ancora insensibile alle ombreggiature più fini e alle tonalità dei colori visti da vicino, che i miei occhi non mi tradivano se facevo qualche passo
indietro e assimilavo l’immagine nel suo insieme. E fu questo il punto di partenza per le composizioni che state per vedere nel mio studio.
Gradualmente giunsi ad una decisione. Da quando avevo passato la sessantina avevo in mente di riprendere ciascuna delle categorie di soggetti ai
quali avevo lavorato nel corso degli anni e di creare una specie di sintesi, una specie di “summa summarum”, in una o forse due tele, di tutte le
mie precedenti impressioni e sensazioni. Ma poi avevo abbandonato l’idea. Le mie cataratte me la fecero riprendere in considerazione. Avevo sempre
amato il cielo e l’acqua, il verde, i fiori. Tutti questi elementi potevano essere trovati in grande abbondanza qui nel mio piccolo stagno.
Quando giunse il giorno in cui mi sentii di avere sufficienti assi nella manica per tentare la fortuna con una reale speranza di successo, mi decisi
ad agire ed agii.
Su due piedi chiamai un muratore. Facemmo un progetto, molto semplice, per uno studio più grande dell’usuale, lungo venticinque metri, largo
quindici. Solide mura, nessuna apertura eccetto una porta. Due terzi del tetto dovevano essere di vetro. Non fu finito che nella primavera del 1916.
Allora, quando i lavori furono più o meno terminati, mi misi all’opera. Sapevo cosa potevo e volevo fare. In due anni ho completato otto dei dodici
pannelli che avevo progettato».
Eravamo arrivati al nuovo studio. Tutto quanto era di un’incredibile sontuosità, ricchezza, intensità di colore e di vita. «Non vi scervellate per
questo» mi disse Monet.
«Se ho riguadagnato il mio senso del colore nelle grandi tele che vi ho appena mostrato è perché ho adattato i miei metodi di lavoro alla mia vista
e perché quasi sempre ho buttato giù i colori a caso, da un lato fidandomi unicamente delle etichette sui tubetti e dall’altro seguendo la forza
dell’abitudine, facendo affidamento sul modo in cui ho sempre steso le tinte sulla mia tavolozza. La mia infermità talvolta è rientrata e, in più di
un’occasione, la mia visione dei colori è tornata com’era ed io ho approfittato di questi momenti per fare le necessarie rettifiche».
L’articolo, di cui abbiamo qui riportato alcuni brani, fu pubblicato in “La Revue de l’Art Ancien et Moderne” del giugno 1927.

