Piero
aritmetico

«Tierra tierra» gridò il marinaio Rodrigo de Triana, imbarcato a bordo della Pinta, quel fatidico 12 ottobre 1492 che cambiò radicalmente il corso della storia.

Quello stesso giorno di più di cinquecento anni or sono qualcuno annotò sul Libro III dei morti della confraternita di San Bartolomeo a Borgo Sansepolcro la seguente frase: «A dì 12 oct[obre] 1492 Maestro Pier dei Franceschi famoso pictore sepolto in Badia»(1).
Nessuna data avrebbe potuto essere più significativa per la morte di Piero: quel giorno, nella convenzionale cronologia degli storiografi, finiva il Medioevo e aveva inizio l’Età moderna, una svolta epocale pari a quella rappresentata dall’opera del maestro di Borgo per il quale la semplice definizione di pittore o di artista risulta inadeguata a cogliere la complessa personalità di chi fu innanzitutto un intellettuale.
Lo dimostra il fatto che, oltre a dipingere, Piero sentisse la necessità di stabilire in scritti teorici metodi e criteri del fare arte e nei suoi trattati si occupasse, tra l’altro, di matematica, cosa non inconsueta per un architetto del Quattrocento ma rara in un pittore del XV secolo. I suoi trattati, infatti, permettono di intendere correttamente cosa significasse per lui dipingere e di scoprire, come rileva giustamente l’Arrighi, che «la matematica è una delle componenti della “forma mentis” di Piero della Francesca e ne è una delle più importanti». Conferma la bontà di questa impostazione una recente mostra dedicata al tema. Nella sede di palazzo Magnani a Reggio Emilia, i curatori Filippo Camerota, Luigi Grasselli e Francesco Paolo di Teodoro, hanno esposto, tutti i codici del De prospectiva pingendi. Un vero evento e una bella mostra; sebbene il catalogo lasci intendere che fossero presenti tanto la Flagellazione e la Pala di Brera rimaste, però, nelle rispettive sedi e la bibliografia non citi fondamentali contributi come quelli di Thomas Martone o Michael Baxandall(2).
Si potrà obiettare che gli scritti teorici appartengono agli ultimi decenni di attività del maestro di Borgo, sicché i teoremi prospettici del De prospectiva pingendi e la descrizione matematica dei solidi regolari e dei poliedri semiregolari del De quinque corporibus regolaribus sarebbero frutto di una passione senile. Al contrario, delle «matematiche », come racconta il Vasari, Piero si occupò fin dalla sua giovinezza e perciò «ancora che d’anni quindici fusse indiritto a essere pittore, non si ritrasse però mai da quelle; anzi facendo maraviglioso frutto et in quelle e nella pittura»(3).
Che Piero fosse un vero matematico è testimoniato “ad abundantiam” dal Trattato d’abaco di cui purtroppo non si conoscono data esatta di stesura e il committente. In genere si colloca alla metà degli anni Sessanta.
Secondo l’ipotesi del Salmi, l’opera sarebbe stata commissionata attorno al 1470 da un certo Bartolomeo Pichi, membro di una delle più importanti famiglie di Borgo Sansepolcro, che si sarebbe rivolto all’artista perché scrivesse «alcune cose di abaco necessarie ai mercanti»(4). Diviso in «ragioni», ossia in capitoli, il trattato non solo svolge tutta l’aritmetica - come avviene nelle opere tardomedievali di questo tipo - ma passa ai radicali e all’algebra risolvendo addirittura «particolari equazioni di grado superiore al secondo e non riducibili»; a questo si aggiunga tutta una parte relativa ai solidi geometrici che altro non è se non la versione in volgare del De quinque corporibus regolaribus(5).
Se, nell’incerta cronologia degli scritti di Piero, proprio il Trattato d’abaco pare il primo a vedere la luce, il secondo dei testi teorici sembra essere il De prospectiva pingendi (“La prospettiva in pittura”, come potremmo tradurre). Probabilmente offerta a Federico da Montefeltro, secondo quanto si è portati a ritenere dalla dedica, l’opera appare scritta necessariamente prima della morte del duca di Urbino, avvenuta il 10 settembre 1482. Diviso in tre libri, il trattato è concepito come un manuale a uso dei pittori che, attraverso dimostrazioni matematiche, conduca per gradi alla padronanza delle leggi che regolano la prospettiva. Così, il primo libro è dedicato alla geometria piana e insegna a riportare sul piano «digradato» (vale a dire inclinato prospetticamente, secondo un determinato punto di vista), prima i punti che si sono voluti scegliere sul piano reale, poi le rette e quindi le figure geometriche piane; il secondo libro sviluppa lo stesso procedimento applicandolo alla geometria dei solidi; il terzo libro intende determinare geometricamente la visione prospettica di oggetti complessi secondo principi che vengono applicati anche alla rappresentazione della figura umana e in particolare della testa. Il fraintendimento dell’impegno esemplificativo e didattico del De prospectiva pingendi potrebbe spingere a confinare il trattato in una sorta di manualistica “da bricolage”, quando invece si tratta di un testo che inizia a “dissodare” campi d’indagine come la geometria proiettiva e quella descrittiva(6). Infatti, nel De prospectiva pingendi la pratica prospettica diventa una dichiarazione di estetica e la prospettiva stessa finisce per identificarsi con la pittura che, per l’appunto, «non è se non dimostrationi de superficie et de corpi degradati e accresciuti nel termine»(7).


Battesimo di Cristo (1459-1460 circa), particolare; Londra, National Gallery.