Piero
e Urbino

Quello che emerge dalla succinta ricognizione critica sulla Flagellazione è il legame che Piero ebbe con Urbino e Federico da Montefeltro.

I documenti al riguardo sono al solito, scarsi: la presenza del maestro nella città marchigiana (a ospitarlo fu Giovanni Santi, padre di Raffaello) viene ricordata solo nei registri della locale confraternita del Corpus Domini che l’8 aprile 1469 riferiscono sul «maestro Piero del Borgo [...] venuto a vedere la taula per farla a conto della fraternità». È questo il motivo per cui Banker tende a datare a quest’anno la tavola urbinate(56).
Per quella compagnia Piero avrebbe dovuto completare la pala di cui l’ormai settantenne Paolo Uccello aveva realizzato la sola predella. Invece, neppure Piero eseguì mai il dipinto che fu poi ultimato da Giusto di Gand. Nel luglio del 1472 Battista Sforza, moglie di Federico, morì dopo aver dato alla luce Guidobaldo, l’erede fino ad allora vanamente atteso. Potrebbero esser queste le circostanze di vita e di morte intrecciate nel tessuto pittorico della Pala di Brera, che, sebbene priva di documenti, potrebbe aver assolto al ruolo di ex voto di ringraziamento per la nascita di Guidobaldo: monumento commemorativo per ricordare Battista e opera celebrativa della schiatta dei Montefeltro, senza escludere un riferimento alla conquista di Volterra, avvenuta il 18 giugno 1472.
Al primo evento allude senz’altro la presenza dell’uovo, posto in asse con il Bambino e collocato all’interno della conchiglia dell’abside, quasi fosse una perla(57).Tuttavia, verosimilmente, la presenza dell’uovo – il cui uso nella decorazione architettonica è stato ampiamente documentato – allude pure al concetto di resurrezione e di vita eterna, come dimostra anche l’affresco della tomba Fissiraga in San Francesco a Lodi(58). Alla duchessa, poi, dovrebbe riferirsi san Giovanni Battista, per l’evidente richiamo onomastico. Quanto alla glorificazio ne della casata, la presenza di Federico in armi inginocchiato dinanzi alla Vergine è un’immagine troppo esplicita per doverla ulteriormente commentare. La pala presenta, però, un’altra particolarità: si tratta infatti di un’opera incompiuta, poiché le mani di Federico non furono dipinte da Piero; secondo alcuni, come Longhi e Lavin, da Pedro Berruguete, secondo Meiss dal già ricordato Giusto di Gand. Come mai? Tornano alla mente le parole di Vasari che lo descrive malato e cieco nell’ultima parte della sua vita. Quelle mani incompiute sono il tragico segno della sua malattia? Fu forse la Pala di Brera la sua ultima opera? Certo è che il testamento redatto nel 1487 lo descrive «sano nella mente, nello spirito e nel corpo». Il fatto che il maestro abbia utilizzato il medesimo cartone che adoperò per raffigurare Federico nel dittico degli Uffizi anziché far ricorso a un nuovo ritratto, è stato interpretato come una prova che l’intera opera era stata eseguita dopo la morte del duca, avvenuta nel 1482, e che Piero doveva aver protratto l’impresa fin verso il 1488, quando ormai cieco sarebbe stato costretto a sospenderla(59).
Il dittico degli Uffizi, che pure è privo di documenti, è concepito come una medaglia, con il profilo dei duchi su un lato della tavola e i carri allegorici dei rispettivi trionfi sull’altro. Il carro di Federico presenta il duca assiso sulla sedia gestatoria, in armi, l’elmo sulla coscia sinistra leggermente rialzata, lo scettro in pugno, come recitano i versi latini che commentano la scena. Alle sue spalle, la Vittoria – ormai assimilata quasi del tutto a un angelo – lo incorona. Nella parte anteriore del carro trainato dai candidi destrieri, le quattro Virtù: da sinistra, Prudenza, Temperanza, Fortezza e Giustizia; sul fondo, il cristallino paesaggio del lago Trasimeno. Il carro di Battista, invece, è trainato da due unicorni, simbolo di castità e di purezza. La scritta sottostante celebra la modestia della duchessa, che appare intenta alla lettura mentre Fede e Carità le siedono davanti e Speranza e Modestia le stanno a fianco. Sullo sfondo, l’ubertoso paesaggio della Valdichiana(60).
Al periodo urbinate dovrebbe appartenere anche la delicatissima Madonna di Senigallia conservata nella Galleria nazionale delle Marche a Urbino dove le semplici cose quotidiane si trasformano nell’allegoria dei misteri della fede(61). Così, la scatola per le ostie posta in alto sullo scaffale allude al sacrificio eucaristico, mentre le candide pezzuole di lino nel cesto di vimini simboleggiano il ruolo salvifico della Vergine e la sua assimilazione all’Arca dell’alleanza, nonché un riferimento all’episodio veterotestamentario di Mosè - sorta di Cristo “ante litteram” - salvato dalle acque in una cesta di vimini. Infine, la luce che penetra dalla finestra è metafora del concepimento tutto spirituale di Maria, mentre le pietre, trasparenti come tormaline, indossate dagli angeli sono simbolo di purezza(62). La rosa in mano al Bambino è simbolo del rosario, oltre che segno dell’amore divino, come quella della Madonna di Williamstown.
L’ultima opera di Piero della Francesca fu forse la Natività conservata alla National Gallery di Londra. Sicuramente non ultimata, potrebbe forse essere identificata con la tavola che rappresentava, appunto, una Natività «manu magistri Petri» (“per mano del maestro Pietro”), secondo un documento del 30 gennaio 1500 nel quale sono elencati i beni del pittore(63). Se le sue precarie condizioni non sono imputabili ad avventate puliture successive, come hanno ipotizzato Longhi e Clark, allora, come pensa Battisti, potrebbe veramente trattarsi dell’ultima opera di Piero, rimasta per qualche tempo nella sua casa dopo la sua morte. Per la datazione al 1483, si è sempre fatto riferimento allo schema fiammingo della Natività di Hugo van der Goes, nota anche come Trittico Portinari (Firenze, Uffizi), giunto a Firenze nel 1483. Tuttavia, Piero avrebbe potuto conoscere questo schema per averlo visto nella più volte ricordata Adorazione del Bambino di Filippo Lippi (se non nell’originale, in stampe o riproduzioni dell’opera già celebre). Senza contare che, come rileva Bertelli, gli angeli musicanti della Natività londinese sono malamente citati da Lorentino d’Andrea in una sua pala del 1482 conservata al Museo statale di Arezzo. Pertanto, l’opera doveva essere già stata impostata e in parte realizzata prima dell’arrivo del ricordato Trittico Portinari(64). Il dipinto di Piero è un’opera affascinante che ha per tema le celesti armonie cantate dagli angeli che si accompagnano con liuto e ribeca. Battisti ha giustamente richiamato l’attenzione sull’asino dal manto fulvo (e perciò demoniaco) che raglia sul fondo, e chi scrive sulla malefica presenza della pica che costituiscono le note dissonanti che incrinano l’armonia e annunciano l’Apocalisse(65). Uno dei tre pastori sulla destra indica qualcosa in alto: l’angelo, la colomba o la stella dei magi, secondo il testo di Tommaso d’Aquino? Certo è che il gesto misurato di quella figura che addita il cielo è il più consono a rappresentare il significato universale dell’arte di Piero.



Madonna e il Bambino, con santi, angeli e il duca Federico da Montefeltro (Pala di Brera) (1472-1474), particolare; Milano, Pinacoteca di Brera.

Maestro della tomba Fissiraga, Madonna e il Bambino, con santi e Antonio Fissiraga (1327); Lodi (Milano), San Francesco.