Sette grandi composizioni, oltre duecento oli più piccoli, centinaia di disegni sciolti o raccolti in taccuini. Un contributo eccezionale alla sua epoca, un impulso alle ricerche del XX secolo. Eppure George Seurat capofila del neoimpressionismo, in un momento in cui realismo accademico e impressionismo sembrano in crisi, non ha la fama di Van Gogh o Gauguin.
È un tipo troppo borghese, severo, silenzioso, un «notaio», come lo definisce Degas. «Un ragazzone timido, ma energico; una barba da apostolo e una dolcezza da ragazza. La voce bassa, persuasiva, un incorreggibile testardo. Un lavoratore accanito, recluso nel suo piccolo atelier di boulevard Clichy», lo descrive l’amico scrittore Arsène Alexandre nel giornale “Paris” del primo aprile 1891, a un giorno dalla morte. Un tipo che «non s’abbandona mai alla fantasia», che lavora in silenzio, gli occhi semichiusi, la pipa tra i denti, disposto a parlare solo del suo “metodo”.
Andava puntualmente a pranzo dalla madre, ricorda Gustave Kahn, un altro amico, e non interrompeva mai il lavoro se non per rapidi spuntini nei ristoranti vicini. Una vita ordinata, dedicata tutta alla pittura, vissuta nei piccoli atelier parigini da rue de Chabrol a boulevard de Clichy, da Montmartre a Pigalle. O sulla costa della Normandia, in estate.
Dei suoi intimi pensieri, della sua esistenza privata sappiamo poco. Nasconde i suoi amori con Madeleine Knoblock, la nascita di un figlio. Le poche testimonianze scritte sono sintetiche lettere di lavoro agli amici, documenti di “estetica”.
A parlare per lui sono i compagni del gruppo neoimpressionista, Signac, Pissarro, Angrand. O i numerosi amici simbolisti, critici, poeti, letterati. Ne seguono la poetica, lo riconoscono capo della nuova svolta “pointilliste” in pittura, l’introduttore d’un “metodo scientifico”. Per la critica del primo Novecento diventa il precursore del “cubismo scientifico”. Ruolo che oggi appare ridimensionato dagli studi di Schapiro (1935 e seguenti), Webster (1944), Gage (1987), Herbert (dal 1968 in poi), dalla mostra del 1991 al Grand Palais e al Metropolitan Museum of Art e in generale dalla critica recente. Sono sfatati molti luoghi comuni: Seurat si nutre di trattati scientifici o, meglio, pseudo-scientifici, ma non determina certo a priori le sue opere secondo quelle leggi. È uno sperimentatore, che matura lentamente la sua tecnica col mestiere, come dimostrano disegni e studi preparatori. Non è l’inventore d’un rigido e rigoroso “pointillisme”, ma un tecnico, che usa con libertà punti, linee, tratti e sistemi diversi, come rivela l’analisi dei dipinti. Non un creatore di linee e geometrie astratte, ma di “tipi” umani che riflettono pregi e difetti della società del tempo. Un artista poliedrico e versatile, che tratta tutti i temi: dal paesaggio ai café-concert, dai nudi d’atelier ai saltimbanchi sino alle misteriose marine.
Innovatore, ma con un pizzico di conservatorismo borghese, parte dall’École des Beaux-Arts per arrivare alla sottile ironia dell’illustrazione grafica. Un percorso che lo vede appassionarsi all’impressionismo e al simbolismo, e allinearsi, senza mai una dichiarazione esplicita, ad anarchici e intellettuali di sinistra.
Seurat è, insomma, un testimone della sua epoca, un Fidia moderno che «vuole ritrarre le persone del [suo] tempo in ciò che hanno di essenziale» per tramandarcele come in un fregio antico, come indica lui stesso a Gustave Kahn. Nasce a Parigi, in rue de Bondy 60, il 2 dicembre 1859. Suo padre, Antoine-Chrisostôme, originario della Champagne, passava per un tipo originale. Indicato semplicemente come “proprietario” nell’atto di nascita del figlio, era speculatore immobiliare e si divertiva a collezionare immagini devote. Lasciava spesso l’abitazione parigina di boulevard Magenta, dove viveva con la famiglia e se ne andava nella casa del Raincy, in campagna, a coltivare il giardino e a dir messa nella cappella assistito dal giardiniere. La madre, Ernestine Faivre, apparteneva alla piccola borghesia cittadina.
