Così nel giugno del 1876 Vincent van Gogh, a 23 anni, descriveva la sua vita. Poco tempo prima – il 1° aprile – si era licenziato dalla Goupil & Cie, dopo sette anni di impiego che lo avevano portato all’Aja, Londra e Parigi. Sebbene in quegli anni non avesse ancora la minima idea di quel che avrebbe fatto poi, è certo che le sue visite a musei e mostre e il suo profondo interesse per la letteratura inglese e francese hanno influito sul corso della sua vita futura. Nell’agosto del 1872 dall’Aja aveva scritto una lettera a suo fratello Theo, di quattro anni più giovane: sarebbe stata la prima di una lunga serie di lettere, tutte conservate, che l’avrebbero tenuto profondamente legato, sino alla morte, al fratello, amico e confidente. Lo fa costantemente partecipe delle sensazioni che gli provocano la natura e l’arte. Una volta trasferito per lavoro a Parigi, il 31 maggio 1875 Vincent scrive a Theo, anch’egli nel frattempo entrato nella ditta Goupil: «Ieri ho visto la mostra di Corot [...] Nel Salon ci sono tre Corot, bellissimi [...] Come puoi ben immaginare ho visto anche il Louvre e il Lussemburgo [...] Vorrei tanto che tu potessi vedere i piccoli Rembrandt, I pellegrini di Emmaus e la coppia de I filosofi» (27). Il 6 luglio 1875 comunica ancora da Parigi: «Ho preso in affitto una stanzetta a Montmartre. È piccola, ma guarda su un giardinetto pieno di edera e di viti selvatiche » e dice che alle pareti ha messo stampe di Thijs Maris, Daubigny, Corot, Millet (30). L’edera deve aver avuto per Vincent anche un valore simbolico, così come lo ebbero altre piante e fiori. Per lui l’edera è simbolo dell’amicizia, quella che lo legò soprattutto a Theo. Il 21 gennaio 1877 scrive da Dordrecht: «Dalla mia finestra vedo alberi di pino e di pioppo e il retro di vecchie case dove, sulle grondaie, si arrampica l’edera ». E, come ama fare, cita: «L’edera è una strana, vecchia pianta, disse Dickens» (84).
