XXI secolo 1
Guido Guidi
Imparare a vedere,
senza guardare
Francesca Orsi
Durante gran parte dell’intervista a Guido Guidi, il fotografo di Cesena mi guarda di sottecchi. Da dietro una montatura scura, i suoi occhi, in molte occasioni, non mi arrivano frontali, ma l’arcata superiore degli occhiali taglia spesso il suo sguardo ed è come se mi spiasse da sotto, cercando una prospettiva su di me non scontata, sempre diversa. Non è timidezza, ma più sicuramente un modo di vedere il mondo. Il suo modo di vedere il mondo, da angolature sempre mutevoli, sfidando le leggi della convenzione. Non per niente il suo ultimo libro pubblicato recentemente da MACK si intitola Di sguincio (1969-1981).
All’inizio degli anni Ottanta sei stato promotore di una certa ricerca sul paesaggio, che indagava un nuovo modo di guardarlo e intenderlo. Fotografavi a colori, tramite una macchina fotografica di grande formato. Di sguincio (1969-1981), invece, mostra delle immagini di un proto-Guidi: immagini in bianco e nero, carpite con un apparecchio di piccolo formato, manifesti di un tale grado di fugacità da definirsi “istantanee”. Come ricolleghi questo primo Guidi a quello che verrà poi e che tutti abbiamo imparato a conoscere?
Il mio primo approccio con la fotografia risale al 1955-1956, avevo quindici anni. Mio zio mi regalò una 6 x 6, io comprai, subito dopo, il cavalletto. Quando iniziai a fotografare ero al secondo anno del liceo artistico. Per capire il collegamento tra Di sguincio e i lavori successivi è bene che racconti una mia pratica degli inizi: durante le ore di disegno, al liceo, avevo due cavalletti, uno con un foglio di carta 70 x 100 e l’altro con un foglio grezzo di carta da pacchi. Nel primo disegnavo minuziosamente i dettagli, bassorilievi, lentamente, riflettendo su cosa stessi facendo; però, di tanto in tanto, mi giravo e iniziavo un disegno al carboncino sul foglio da pacchi, un disegno veloce, istantaneo, a mo’ di schizzo. Il mio approccio alla fotografia deriva anche da quella pratica, oltreché dall’influenza di correnti artistiche come l’Informale e l’Action Painting, che includevano l’azione dell’artista nel produrre l’opera come parte dell’opera stessa.
Erano anni in cui la progettualità fotografica era ricollegata unicamente al pensiero, a un modo lento di intendere quello che poi sarebbe stato l’atto creativo e visivo. La mia fotografia, invece, è sempre stata riconducibile a un pensiero nel suo farsi, non a un pensiero fatto. A me ha sempre interessato, influenzato da grandi maestri come Carlo Scarpa, il processo, quel modo di scardinare le convenzioni radicate dal tempo e ritrovare una sorta di sguardo innocente sul mondo.