PICASSO IN MOSTRA A NAPOLI

il classico?
una forza magnetica

Lauretta Colonnelli

Forte fu l’influenza dell’arte antica su Picasso che, nel 1917, in occasione del suo viaggio in Italia, fece tappa a Napoli, Ercolano e Pompei. Un aspetto cruciale della sua poetica come racconta l’esposizione al Museo archeologico nazionale.

Un pomeriggio di maggio del 1933, il fotografo Brassaï andò a trovare il suo amico Picasso. Lo sorprese che stava componendo la prima copertina di “Minotaure”, la rivista dei surrealisti. Lo vide attaccare su una tavola con delle puntine da disegno un cartone goffrato, come quello che usava anche per le sculture, e sovrapporvi pezzi di carta argentata, un centrino rotondo in pizzo di Cantù, dei nastri di raso, delle foglie artificiali un po’ sciupate che aveva preso da un cappello fuori moda scartato dalla moglie Olga, e infine una delle sue incisioni a bulino raffiguranti l’antico mostro cretese con il corpo di uomo e la testa di toro. Il Minotauro era stato scaraventato a terra e cercava di rialzarsi facendo forza sul braccio sinistro. Il pittore l’aveva ritratto in parte da tergo, ma con il capo rivolto verso lo spettatore, mentre brandiva un pugnale nella mano destra alzata, pronto a combattere il suo avversario Teseo fino alla morte, e non solo con le corna e il corpo muscoloso. L’immagine enfatizzava l’aspetto umano, e al tempo stesso feroce, del mostro.

A questa raffigurazione si affiancano alcune delle cento incisioni che Picasso realizzò tra il 1930 e il 1937, e che avrebbe poi raccolto nella cosiddetta Suite Vollard, dal nome del famoso gallerista francese. L’artista riformula qui il mito greco innestandolo nella corrida – a cui lo legavano le origini andaluse – con tori e cavalli e donnetorero fusi nel combattimento quasi in un’unica figura.

Nell’arena, anche un Minotauro ferito e morente, che muggisce di dolore con il muso rivolto al cielo, mentre una spettatrice della prima fila allunga la mano in una tenera e pietosa carezza. Il lato umano del mostro ha preso il sopravvento e Picasso si identifica con lui. Sta vivendo quello che definirà in seguito il periodo peggiore della sua vita: la fine del matrimonio con la ballerina russa Olga Kokhlova e la crisi personale che lo portò, tra il giugno 1935 e il marzo 1936, ad abbandonare il disegno in favore della poesia. «Al torero / con l’ago più sottile che la nebbia inventò / cuce un vestito di lampade elettriche / il toro», scriveva. La sua predilezione e la sua tenerezza vanno alla bestia sconfitta. Rappresenta se stesso sotto forma di Minotauro cieco, guidato nelle tenebre da un’adolescente, forse la giovanissima Marie-Thérèse Walter, con la quale aveva iniziato nel 1927 un’intensa relazione. Oppure mentre trascina, dopo la separazione dalla moglie, il carretto del trasloco carico di quadri.

Ma l’uomo-toro scalpitante incarna anche un’immagine dionisiaca. Pieno di vita, con le narici dilatate dal desiderio che lo spinge a concupire donne giovani e belle e sempre nude, lo si vede a fianco di una di loro, semisdraiato a letto nella stessa posizione del Minotauro surrealista, ma questa volta la mano destra, anziché il pugnale, alza in un brindisi la coppa di champagne.

Ora, trentasette delle cento tavole della Suite Vollard, arrivate in prestito dal British Museum di Londra, sono esposte insieme ad altre sei opere di Picasso – olii, pastelli, acqueforti prestate dal Musée National Picasso-Paris e da Gagosian New York – nella mostra Picasso e l’antico, curata da Clemente Marconi e organizzata nel cinquantenario della morte dell’artista al Museo archeologico nazionale di Napoli. Si può visitare nelle sale della collezione Farnese, riallestite come si presentavano al tempo in cui le vide Picasso, e si può così fare un confronto tra i suoi lavori e le opere del museo che segnarono un rafforzamento della sua tendenza verso il naturalismo del cosiddetto “secondo periodo classico”.

Picasso soggiornò a Napoli, Ercolano e Pompei tra il 9 e il 13 marzo 1917, e per più giorni nel mese di aprile, nel corso del suo viaggio in Italia al seguito dei Balletti russi, insieme a Sergej Djagilev, Jean Cocteau, Léonide Massine, Igor Stravinskij e al resto della compagnia. Le sculture Farnese, in particolare l’Ercole, il gruppo del Toro con il supplizio di Dirce, la Venere callipigia, colpirono l’artista per le loro dimensioni colossali e il variare delle proporzioni tra le diverse parti del corpo. Trasferirà queste caratteristiche nelle opere successive.

Ma fu l’affresco del Teseo liberatore proveniente da Pompei a impressionarlo di più: in primo piano Teseo abbracciato dai bambini ateniesi destinati al pasto del Minotauro, e a sinistra il corpo del mostro abbandonato morente sulla soglia del labirinto senza luce, a scontare la colpa della madre Pasifae che l’aveva concepito con un bianco toro.


Toro Farnese (I-III secolo d.C.), Napoli, MANN - Museo archeologico nazionale di Napoli.