A volte un film si fa apprezzare, al di là dei suoi esiti, anche per quanto rivela sul fare immagini in movimento in una data epoca, in questo caso ai tempi del web, dei social e su un’intensificazione inaudita della cosiddetta “semiosfera” (il sistema di segni altamente connesso in cui viviamo). Può accadere così che tre piccoli video caricati su YouTube (Marcel the Shell with Shoes On) da una coppia di cineasti amatoriali, Dean Fleischer-Camp e Jenny Slate, ricevano un tale trionfo di visualizzazioni da tentare la scalata al successo cinematografico. E i due ci riescono anche grazie a una major indipendente come la A24 (che ha lanciato autori “indie” come Aster, Eggers, Lanthimos), tematizzando l’esperienza della realizzazione dei tre video all’interno di un film che diventa dunque, tra le altre cose, anche un film sul farsi di un film.
Stiamo parlando di una delle più particolari opere di animazione degli ultimi anni, Marcel the Shell, in cui “mockumentary” (una forma di
finzione mascherata da documentario spesso con intenti parodistici), stop motion e film nel film si incrociano in un gioco che è sia un azzardo sia un
delicato apologo zen. Non è semplice, infatti, fare un film su una conchiglia di tre centimetri benché dotata di due scarpe, un occhio e una bocca, a
mitigare lo scarso antropomorfismo del tutto, e soprattutto una tenera vocina a strizzare l’occhio al bambino e all’immaginario disneyano che c’è in
ognuno di noi. Tuttavia, Marcel the Shell non è un film per bambini ma, forse, per preadolescenti; di sicuro è un prodotto spiazzante e intrigante e
proprio per questo di incerto target. A volte, le idee presenti nei tre piccoli video originari (e riprese poi nel film) sembrano un po’ “gonfiate” per
arrivare ai canonici novanta minuti, e qua e là qualche trovata non si sa se giudicarla ambiziosa o velleitaria. Nel complesso, però, sebbene Marcel the
Shell non convinca del tutto, è fuori dubbio che vinca la scommessa di aver creato un avamposto nella terra di mezzo poco esplorata tra “real action”,
animazione e fiction. In parte la terra di Chi ha incastrato Roger Rabbit (Robert Zemeckis, 1988) per citare, a tal proposito, uno dei film più
riusciti. Con una differenza: quando si vede accanto a Marcel, che in realtà è una creatura di plastilina, un autentico insetto, un bombo caduto non si
sa da dove nel giardino, i due albergano nella stessa realtà fisica (la medesima cosa dicasi anche per le interazioni tra Marcel e il cagnolino), che è
poi la realtà tout court. Una realtà però singolarmente ingrandita da apparire pulviscolare (che ricorda anche un po’ A Bug’s Life di John Lasseter e
Andrew Stanton, 1998) con annessa malinconia, con interni abbandonati e un po’ fatiscenti, finestre aperte, tende che svolazzano, immagini che
richiamano alla memoria un grande pittore come Andrew Wyeth. Quella stessa realtà, ed è qui il lato zen, che il film ci invita ad abbracciare con
pienezza. Un plauso alla veterana Kirsten Lepore (Bottle, 2011; Sweet Dreams, 2008), responsabile dell’animazione.