In ambito artistico, l’icona è un’immagine sacra dipinta su tavola di legno o lastra di metallo della tradizione cristiana orientale, ma, in un’accezione più ampia, sono chiamati icone anche i personaggi emblematici all’interno di un certo contesto, o le piccole immagini sul desktop del computer o sullo smartphone, richiami visivi immediati a una funzione, a un file, a un’applicazione, attivabili con un clic o con un tocco. L’etimologia della parola “icona” risale al sostantivo greco bizantino “eikóna”, “immagine sacra”, che a sua volta deriva dal greco classico “eikón, -ónos”, ”immagine”, dal verbo “éoika”, “sembrare, assomigliare”. Nel tempo, a ciò che semplicemente appare (la parvenza)(1) si è aggiunta una dimensione trascendente, spirituale e simbolica.
La mostra Icônes a Punta della Dogana, in corso fino al 26 novembre, a cura della direttrice generale della Pinault Collection Emma Lavigne e del direttore di palazzo Grassi e Punta della Dogana Bruno Racine, è un progetto che vuole, come ha spiegato Racine, «dare un senso contemporaneo alla parola “icona”: si parla di icona del cinema, icona della moda, icona della collezione, ma in modo più profondo icona è un’opera che non è principalmente mimetica, innanzitutto è un segno, una finestra verso l’invisibile». Un’iniziativa pensata per Venezia, da sempre punto di incontro tra epoche e culture differenti, dove la cultura bizantina ha lasciato tracce persistenti anche nei secoli successivi, che si volge in contemporanea a un altro evento espositivo negli spazi veneziani della Collection Pinault dedicato alla potenza evocativa delle immagini, Chronorama, a palazzo Grassi, sull’archivio Condé Nast (fino al 7 gennaio 2024).
Per Icônes, i curatori hanno selezionato, in aggiunta ad alcuni inediti e a opere site- specific, circa ottanta opere della collezione di François Pinault molto diverse fra loro – pitture, video, suoni, installazioni, performance, sculture –, che hanno in comune la proprietà di provare a rappresentare il non rappresentabile o il non visibile, e di creare intorno a sé uno spazio di contemplazione. «La questione dell’icona si trova sulla soglia di un’area la cui apparizione quasi spettrale non ha nulla di irreale. E su questo bordo impercettibile, che esplora la luce molto più degli oggetti che illumina, gli artisti si mettono e ci mettono alla prova con l’invisibile e la sua potente vitalità»(2).
La mostra è stata ideata come una successione di “cappelle”, non in senso religioso ma ecumenico o laico, ambienti destinati al raccoglimento e alla meditazione dove nascono dialoghi fra artisti emblematici come Agnes Martin e David Hammons, Kimsooja e Chen Zhen, Danh Vo e Rudolf Stingel, Sherrie Levine e On Kawara.
Il percorso espositivo si apre con un Concetto spaziale (1958) di Lucio Fontana, in cui l’“oltre” appare attraverso i buchi praticati nella tela. La creazione di una dimensione trascendente della materia attraverso l’azione della luce è una componente essenziale anche di Ttéja 1, C (2003- 2017) di Lygia Pape, fili d’oro tesi in uno spazio luminoso, che appaiono e scompaiono alla vista a seconda della posizione dell’osservatore, e del minimalista Untitled (1991) di Donald Judd, quattro scatole di acciaio corten appese al muro a disegnare una croce cava, con il fondo dipinto di giallo vivo.
A contrasto, le atmosfere cupe e ipnotiche del video in alta definizione La Quinta del Sordo (2021) di Philippe Parreno, sulle pitture nere di Goya, nella seconda sala. Le fragili pareti in carta di riso della sala da tè (o da meditazione) di Lee Ufan (Tea in the Field, 2023), quasi completamente distrutte, i cui resti vibrano nella luce veneziana, si confrontano con l’inamovibilità e la durezza di grandi pietre sul pavimento di ghiaia, plasmate dalla natura, solo apparentemente meno soggette all’impermanenza e alla precarietà.

