Questa storia ha tanti incipit, eppure tutti conducono allo stesso epilogo. Per esempio, potrebbe iniziare con le stesse parole con cui iniziava la perizia scritta nel 2006 dal restauratore chiamato a Bassano del Grappa per analizzare i pezzi che componevano un cavallo colossale realizzato da Antonio Canova: «Il cavallo in gesso venne segato in numerose parti e accatastato in un locale; da una verifica effettuata pare che ci siano quasi tutti i pezzi del corpo ma che sia assente il basamento. Nello smontaggio del cavallo non venne seguito il criterio di assemblaggio dell’artista, ma bensì venne brutalmente segato, sacrificando porzioni di materia originale. All’interno dei frammenti si nota l’armatura originale fatta di ferro ma anche di piccoli tronchi di legno e pezzi di mattone e cocci utilizzati per rinforzare alcune zone». La perizia proseguiva con la descrizione minuziosa di tutti i passaggi volti al rimontaggio e quindi al restauro del gesso, operazione che non fu mai portata a termine, forse per il suo costo elevato o, più probabilmente, perché i frammenti, rimasti per quasi cinquant’anni ammassati in casse di legno aperte in un magazzino, avevano anche subito deformazioni irreversibili causate dall’umidità.
Questa storia potrebbe anche cominciare nel dicembre del 1806, quando Giuseppe Bonaparte, re di Napoli, chiese a Canova di realizzare un monumento equestre per suo fratello Napoleone. Negli epistolari e negli archivi canoviani (che ho consultato a Bassano, a Possagno, all’Archivio di Stato di Napoli, all’Archivio segreto del Vaticano, al MANN e all’Archivio storico del Museo di San Martino di Napoli), abbiamo rinvenuto molte informazioni preziose su cronologie e dettagli delle commissioni, insieme ad alcune frasi che ci consentono di capire qual era il gusto dell’epoca («deve essere somigliante al Marc’Aurelio del Campidoglio »), e poi ricevute di pagamento, disegni e considerazioni sulla modellazione, che l’autore appuntava durante le lavorazioni e inviava a fidati e illustri conoscitori d’arte per raccoglierne le impressioni. Mentre la lavorazione del gesso, a grandezza superiore al naturale, veniva completata nel 1809, sul trono di Napoli arrivò Ferdinando I di Borbone che impose di cambiare il soggetto ritratto: non più Napoleone ma Carlo III. Eseguita la modifica, il gruppo scultoreo fu infine fuso in bronzo e posizionato in piazza del Plebiscito, dove ancora oggi è possibile ammirarlo.
Un terzo incipit di questa storia potrebbe invece essere quello del 1819, data in cui venne avviata la realizzazione del secondo monumento equestre di piazza del Plebiscito, quello dedicato allo stesso Ferdinando I. Eseguiti i lavori di modellazione in gesso del solo cavallo, nel maggio 1822 Antonio Canova si recò a Napoli per far eseguire la fusione, della quale però non intendeva occuparsi: «È un’operazione ardimentosa e difficile a me sconosciuta, non posso dare lumi né avvertimenti di alcuna sorta», scriveva all’amico Quatremère de Quincy. Il 13 ottobre Canova moriva lasciando il gruppo scultoreo incompiuto. La casa borbonica indisse dunque un concorso affinché l’opera fosse portata a termine e ad aggiudicarsi la commissione fu Antonio Calì: da ciò che era dato sapere fino alle nostre recenti indagini, fu lui a realizzare la sola figura del cavaliere (Ferdinando I) ancora mancante.
Un quarto possibile inizio, fu il successivo trasloco, voluto dal fratellastro di Antonio Canova, monsignor Sartori Canova, per spostare a Possagno e a Bassano del Grappa tutto quello che si trovava nello studio romano del grande scultore: opere, album, taccuini, documenti e la collezione d’arte. Giunsero da Roma a Bassano due colossali cavalli in gesso di cui solo uno con cavaliere. La fama delle regali commissioni dovette trarre in inganno gli studiosi, che riconobbero in quel cavallo il modello in gesso del monumento equestre incompiuto dedicato a Ferdinando I e poi completato da Calì. Al numero 60 del registro ingressi del Museo civico di Bassano del Grappa redatto da Francesco Trivellini nel 1868, però, si legge: «Canova - cavallo colossale senza cavaliere», senza menzione alcuna del sovrano. Fu tra il 1903 e il 1911 che il direttore del museo bassanese Paolo Maria Tua appuntò sull’inventario: «Modello originale in gesso del cavallo colossale preparato per il monumento equestre per Ferdinando IV [poi Ferdinando I] di Napoli.
Non venne tradotto in bronzo», facendo esplicito riferimento alla lettura che ne diede Isabella Teotochi Albrizzi nel 1823, la quale aggiungeva: «L’infausta sorte non permise allo Scultore né meno di condurre in modello l’ideata statua del Monarca». Nonostante nell’inventario del Tua vi fosse esplicita l’informazione che il modello in gesso del cavallo non divenne mai bronzo, la letteratura e la critica successive hanno sempre riportato l’errata interpretazione, identificandolo, quindi, come il modello del gruppo scultoreo napoletano.



