RINASCIMENTI BRESCIANI:
DAL CULTO DELLA ROMANITÀAI MAESTRI DEL CINQUECENTO

Presentando Brescia all’interno del proprio Itinerario, nel 1483 Marin Sanudo mise anzitutto in luce l’antichità della città lombarda, facilmente riscontrabile nella materialità degli spazi pubblici.

Enrico Valseriati

Il diarista poteva così annotare che «nela Citadella vechia è uno palazo antiquo dove è molte antigità che dura ancora» (1). Ciò che il giovane nobile veneziano stava descrivendo altro non era che l’emergenza monumentale dell’antichissimo Foro romano; un’evidenza ben visibile a quell’altezza cronologica, a discapito dei molti cambiamenti che il tessuto urbano di Brescia aveva conosciuto nel corso dei secoli.

La consapevolezza di questo legato storico e architettonico era parte integrante dell’identità civica già all’epoca in cui Brescia fu annessa alla Repubblica di Venezia (1426). Tuttavia, il momento che Sanudo “fotografa” rappresenta l’apice di un fermento culturale, declinato in chiave antiquaria, che pose la città al centro del Rinascimento italiano e più in generale della cultura europea nell’età dell’umanesimo (2).

I provvedimenti pubblici nella Brescia quattrocentesca furono tutti rivolti al rafforzamento di questa linea di continuità, retorica e culturale, con la Roma repubblicana e imperiale. Verso il 1470, per esempio, furono impiantate diverse tipografie al fine di pubblicare i testi degli autori classici; vennero create, nello stesso torno di tempo, cattedre di latino e di greco; furono studiati e riprodotti, in splendidi codici umanistici, i monumenti antichi. Questa declinazione prettamente antiquaria del primo Rinascimento fu convogliata nel nuovo Foro della città moderna, ovvero piazza della Loggia. In essa si concentrarono i simboli del glorioso passato: sul lato meridionale della “platea magna”, in primo luogo, fu eretto nel 1484-1485 il Monte di pietà, sulla cui facciata vennero murate le epigrafi ritrovate nel sottosuolo, andando a costituire uno dei primi lapidari dell’Europa moderna. Pochi anni più tardi fu quindi approvato l’avvio del cantiere della Loggia, la nuova sede delle magistrature cittadine che accoglie svariati richiami alla classicità. Nel 1489, infine, il Consiglio generale del Comune prese una decisione che non aveva molti precedenti nell’Italia della prima età moderna: nel dicembre di quell’anno, infatti, il pittore bresciano Vincenzo Foppa – già reduce da esperienze di rilievo a Milano e a Pavia – fu invitato a tenere pubbliche lezioni di disegno e di architettura ai giovani artisti desiderosi di apprendere la pittura di figura e la scienza vitruviana. La presenza di Foppa e il suo magistero rappresentarono due elementi fondamentali per lo sviluppo delle arti figurative.

Il completamento del primo ordine della Loggia nel 1508, con la collocazione di una serie di teste di imperatori, segnò un punto di arrivo nell’ambito della vocazione antiquaria delle arti plastiche a Brescia. Non lo stesso si può dire della pittura, che agli inizi del XVI secolo sembrava essere per molti aspetti ancora in cerca di una definizione, sospesa tra tradizione e innovazione. Una prova in tal senso è rappresentata dal gusto per certi versi ancora cortese che permea il ciclo di affreschi realizzato, nel secondo decennio del Cinquecento, da Floriano Ferramola per le sale di palazzo Calini. Gli eventi politici e militari di questi anni, con la formazione della Lega di Cambrai e soprattutto con la battaglia di Agnadello (1508-1509), portarono al collasso della Repubblica di Venezia e in seguito ai traumatici risultati del Sacco alla città, perpetrato nel 1512 da Gaston de Foix. Questo clima di incertezza, causato dalla morte violenta di numerose migliaia di bresciani, contribuì a mettere profondamente in discussione l’efficacia retorica e rappresentativa del richiamo antiquario alla romanità. Non è un caso che proprio negli anni più difficili dell’occupazione straniera, caratterizzati da ripetute ondate di peste che flagellarono la popolazione, l’anziano Foppa fornì un personale, altissimo, contributo con la sua ultima opera, vale a dire lo Stendardo di Orzinuovi, sorta di «grande ex voto da contado»(3) contrassegnato da una nuova attenzione per la resa convincente della luce e del dato naturale, assecondando un’inclinazione che da lì in avanti sarebbe diventata vera e propria prerogativa del Cinquecento bresciano. Spettò a una nuova generazione di pittori – nati tra anni Ottanta e Novanta del XV secolo – segnare la svolta definitiva, facendosi protagonisti di quella che la storiografia del Novecento ha battezzato Scuola bresciana: Giovanni Girolamo Savoldo, Girolamo Romani (il Romanino) e Alessandro Bonvicino (il Moretto). In un clima dominato dallo spauracchio della guerra e dall’instabilità politica, le opere di questi maestri cominciarono a registrare, come dei termometri aggiornati pressoché in tempo reale, tali insicurezze, di cui i portavoce principali erano gli uomini d’arme. Non sembra casuale il fatto che gli austeri e orgogliosi ritratti dei cavalieri e dei gentiluomini in armatura furono una costante della prima produzione di Savoldo, Romanino e Moretto.


Vincenzo Foppa, Stendardo di Orzinuovi (1514); Brescia, Pinacoteca Tosio Martinengo (proprietà della parrocchia di Santa Maria Assunta, Orzinuovi).


Taddeo Solazio, Silloge epigrafica (epigrafi dal “Lapidarium” di piazza della Loggia) (1510); Brescia, Biblioteca Queriniana.


Floriano Ferramola, Una giostra in piazza della Loggia a Brescia (1517-1518 circa); Londra, Victoria and Albert Museum.