MORETTO TRA OTTOCENTO E NOVECENTO:
DUE LETTURE A CONFRONTO

«Dilicatissimo ne’ colori et amicissimo della diligenzia, come apertamente fan fede le pulite e ben lodate opere fatte da lui»: così Giorgio Vasari ricorda Moretto nella prima edizione delle Vite de’ più eccellenti architetti, pittori et scultori italiani pubblicata a Firenze nel 1550, quattro anni prima della morte dell’artista bresciano(6).

Roberta D’Adda

Nella successiva edizione giuntina del 1568, lo scrittore aretino aggiungeva un passo relativo alle teste dipinte da Moretto, che «sono vivissime e tengono della maniera di Raffaello da Urbino, e più ne terrebbero se non fosse da lui stato tanto lontano» (7).

Il richiamo vasariano alla delicatezza, alla diligenza e a una certa “ragionevolezza” dell’opera di Moretto, nonché il paragone con Raffaello, è all’origine della costante fortuna in età moderna di Bonvicino tra i pittori bresciani e della sua elezione, sul finire dell’Ottocento, a campione della scuola pittorica bresciana(8). Le ragioni della fortuna ottocentesca di Moretto risiedono in specifiche correnti del pensiero estetico e del gusto, che vanno collegate in particolare al capitolo romantico dei nazareni. Uno dei primi e più appassionati estimatori della pittura di Moretto è infatti il pittore tedesco Franz Pforr, futuro fondatore insieme con Overbeck della Confraternita di San Luca, il quale nel descrivere al pittore e storico dell’arte Johann David Passavant la Santa Giustina di Moretto, conservata nella Galleria del Belvedere a Vienna, nota: «Il più alto ideale di bellezza femminile, cui io ero stato in grado solo di pensare, stava ora davanti a me; e non era solo una bella figura, un bel viso, bensì anche una delle teste più ricche di spiritualità che io avessi mai visto; una severità pensosa e una dolce bontà sono i tratti salienti della nobile testa»(9). Benché all’epoca (siamo nel 1806) la Santa Giustina fosse attribuita a un altro artista, la sua identificazione come icona assoluta e quasi ammaliante di una pittura capace di interpretare con semplicità e purezza di mezzi un autentico contenuto di fede segnerà in modo indelebile la fortuna ottocentesca di Moretto, al quale il quadro fu correttamente restituito, proprio dagli studiosi tedeschi, intorno alla metà del secolo.

Tra quanti coltivarono la memoria del pittore si segnalano Antonio Canova e Francesco Hayez e, a Brescia, in particolare l’architetto Rodolfo Vantini, vero e proprio fautore del mito di Moretto come “Raffaello bresciano”. A lui si deve l’iniziativa della posa di un’epigrafe nel famedio del cimitero monumentale cittadino (1835), la trasformazione della chiesa di San Clemente in una sorta di tempio del pittore, con tanto di cenotafio (1842), e infine la collocazione di un suo busto nella Protomoteca del Campidoglio, a Roma, che significò la consacrazione di Moretto nel pantheon delle glorie artistiche nazionali (1854). Vantini fu peraltro uno dei più stretti amici e consulenti del collezionista bresciano Paolo Tosio, fondatore della pinacoteca civica bresciana: animato da un gusto classicista e appassionato estimatore di Raffaello, Tosio raccolse nella sua galleria due opere del pittore bresciano, tra le quali la Salomè, vero e proprio concentrato di grazia e romantica malinconia.

Nel frattempo, questo nuovo indirizzo di gusto determinava il trasferimento di opere morettesche dall’Italia verso prestigiose collezioni soprattutto inglesi e in molti dei più importanti musei europei, grazie in particolare all’attenzione dei critici tedeschi e anglosassoni(10).

Al culmine di questa particolare esegesi critica – nella quale si trovano fusi elementi storico-biografici, etico-religiosi ed estetici – vanno collocate anche le manifestazioni indette nel 1898 a Brescia per il quarto centenario della nascita dell’artista.

In quella occasione, fra l’altro, fu inaugurato il monumento realizzato dallo scultore Domenico Ghidoni e posto nella piazza intitolata al pittore, antistante la Pinacoteca civica Martinengo. Il museo – che allora era formalmente diviso dalla galleria fondata da Tosio, alla quale sarebbe stato unito solo a inizio Novecento – ospitava per l’occasione una mostra di Moretto, composta da quarantacinque opere e quaranta grandi riproduzioni fotografiche. Nei discorsi inaugurali l’artista era celebrato come «ultimo pittore d’Italia veramente cristiano» (11): la sua statua troneggiava sopra la purissima immagine femminile della Pittura mistica, nella quale era simboleggiato l’estatico rapimento dell’artista, che dall’alto del basamento affermava il suo distacco dal mondo.

Oggi il nostro modo di giudicare Moretto risulta profondamente mutato, grazie soprattutto alle indagini che nel corso del Novecento hanno progressivamente allargato lo sguardo all’intero spettro dei caratteri distintivi del linguaggio morettesco, evidenziandone la ricchezza e la complessità.

In questo ambito, il filone più solido si è rivelato quello dedicato da Roberto Longhi nella prima metà del secolo scorso alla vocazione realistica della pittura bresciana e bergamasca, da lui riconosciute fra l’altro come il terreno fertile entro il quale prese forma l’arte di Caravaggio(12). Per Longhi la scuola bresciana è «la più ricca di intelligenze che vanti in quel tempo l’Italia settentrionale» (1917)(13). Autentico alfiere di una «verità pittorica nuova», Moretto è autore di una pittura solida, dalle atmosfere terse e dalle composizioni di respiro calmo e arioso(14).



Santa Giustina e un donatore (1530-1534 circa), particolari; Vienna, Kunsthistorisches Museum.


Santa Giustina e un donatore (1530-1534 circa), particolari; Vienna, Kunsthistorisches Museum.