DENTRO L'OPERA

LA MORTE SIMULATA
UN’ESPERIENZA MISTICA E ARTISTICA
CONDIVISA

Un primo piano su opere meno note dal secondo Novecento a oggi, per scoprirne il significato e l’unicità nel continuum della storia dell’arte: James Lee Byars

Cristina Baldacci

Sull’eccentricità di James Lee Byars (Detroit, 1932 - Il Cairo, 1997), artista un po’ mistico e un po’ sciamano, il cui pensiero era sospeso tra filosofia occidentale e spiritualismo orientale (negli anni Sessanta visse a lungo in Giappone), non ci sono dubbi. Amava tutto ciò che era inconsueto, soprannaturale, quando non addirittura paranormale, e scherzava con il suo essere-nel-mondo, sfoggiando travestimenti e accessori bizzarri, a volte una coda rosa o una camicia di forza, altre volte un fiore come sbocciato sulla testa calva; oppure inscenando la propria morte. Si augurava che il simulare la sua prematura dipartita potesse essere d’aiuto, quasi un gesto catartico, non solo per se stesso ma anche per gli altri, perché avrebbe permesso di addentrarsi nel mistero della relazione, e della ciclicità, tra la vita e la morte.


La presunta morte dell’artista, e barthesianamente dell’autore, è avvenuta così tante volte nel corso della sua vita da diventare un rituale diligentemente ripetuto in momenti e luoghi diversi. A cominciare da The Ghost of James Lee Byars, una stanza nera e completamente vuota allestita a Düsseldorf nel 1969, oppure, sempre nello stesso anno, con This Is the Ghost of James Lee Byars Calling, per cui lo spazio di una galleria di Los Angeles era stato trasformato in una stanza rossa, anch’essa minimalisticamente vuota. Tutto il lavoro concettuale e le azioni performative di Byars sono di fatto incentrate su quella che è stata definita l’estetica della scomparsa o dell’assenza, in un’ossessiva ricerca dello spirituale e, insieme, della perfezione.

Anche The Tomb of James Lee Byars, messa in scena per la prima volta nel 1986, fa parte della serie di opere che riflettono sulla sparizione fisica dell’artista e sulla possibilità di una vita immortale come spirito o “fantasma”. La sua tomba è rappresentata come una sfera in pietra arenaria, che per la filosofia classica era la forma perfetta, il simbolo di bellezza assoluta.

Quasi un decennio più tardi, mentre stava lottando contro il cancro, Byars inscenò nuovamente la sua morte, questa volta sentendola vicina (The Death of James Lee Byars, 1994). Immaginò ancora una stanza, tutta ricoperta di foglie d’oro, il suo colore preferito, nonché metafora di immortalità. Contrariamente al vuoto delle installazioni precedenti, in questa stanza dorata giacevano, come suoi sostituti, una bara (la materia) e cinque cristalli (lo spirito). Poco tempo dopo, il corpo dell’artista fu sepolto nel cimitero americano del vecchio Cairo, anche se più di una volta Byars aveva espresso il desiderio di dimorare per l’eternità a Venezia. Città da lui molto amata, perché luogo d’incontro tra Oriente e Occidente, Byars vi aveva soggiornato in più momenti eseguendo almeno due memorabili opere, oltre a una delle tante versioni della sua “morte” per gli spazi di Punta della dogana (1993). La prima, una torre dorata (The Golden Tower, 1990), simile a un proiettile gigante di circa venti metri collocata, come simbolo di ascensione, in campo San Vio, tra l’Accademia di belle arti e la Peggy Guggenheim Collection, durante la Biennale d’arte del 2017. La seconda, una performance tenutasi in piazza San Marco quasi quarant’anni prima, mentre era in corso la Biennale teatro del 1975. Harald Szeemann, che aveva già invitato Byars a Kassel per la documenta 5 (1972), gli chiese di pensare a un evento inaugurale per la mostra Le macchine celibi, da lui curata ai Magazzini del sale alle Zattere. Detto, fatto: a metà pomeriggio del 6 settembre, Byars, vestito interamente d’oro e con un cappello nero in testa, orchestrò The Holy Ghost, un’azione collettiva dove le persone accorse in piazza avevano il compito di sorreggere un’enorme sagoma di sessanta metri per quaranta in leggerissimo tessuto bianco. Fu così che per alcuni minuti “lo Spirito Santo” ondeggiò davanti alla basilica di San Marco.