In questa rassegna, manca Gerhard Richter, che viene invece presentato alla 36. Biennale di Venezia nel medesimo anno.
Italo Mussa, nel suo più volte citato testo del 1974, completa il gruppo inserendo gli autori che riteneva importanti, sebbene non convocati.
Il gruppo di artisti, orbitanti più o meno da vicino nel mondo del fotorealismo, va aumentando già a partire dagli anni Settanta del Novecento, registrando un lento ma costante incremento che arriva fino ai nostri giorni, conquistando non solo sempre più artisti, ma soprattutto convincendo il pubblico che, dopo le iniziali diffidenze, ha sempre più seguito e apprezzato questa dimensione artistica.
Negli iperrealisti europei troviamo declinazioni diverse della stessa ricerca. Lo svizzero Franz Gertsch, nato a Berna nel 1930, presenta a Kassel Medici, una gigantesca tela di cm 400 x 600 dipinta nel 1971, che rappresenta cinque giovani sorridenti ed euforici che guardano verso il pubblico da dietro una transenna. Ritroviamo echi della fotopittura statunitense, ma con una declinazione europea; il clima è, infatti, quello della contestazione giovanile e non quello della vita cittadina di quartiere metropolitana o di provincia americana. Al posto della retorica del sogno americano, troviamo piuttosto una forma di entusiasmo generazionale per il futuro, tutto da costruire, sulle macerie del recente passato.
In una dimensione completamente diversa, Jorge Stever, nato a Colonia nel 1940, presenta tre opere iperrealiste, ovvero Ohne Titel (n. ’72-8), Ohne Titel (n. ’72-9); Ohne Titel (n. ’72-10), realizzate nel 1972, dove ritrae superfici scandite da “oggetti” che si librano come sospesi e che gettano ombra sulla tela stessa. L’inganno pittorico è completo, gli oggetti sembrano restare in aria, librandosi fermi davanti ai nostri occhi.
Gerhard Richter, nato a Dresda nel 1932 e fuggito nel 1961 dalla DDR, non presente a Kassel, come abbiamo già notato, espone nel padiglione tedesco della 36.
Biennale di Venezia ben cinquanta ritratti di filosofi, poeti, musicisti eseguiti tra il 1971 e il 1972, dichiarando apertamente la dimensione fotografica e nel contempo storica della sua ricerca artistica. Infatti, qualche anno dopo, nel 1988, eseguirà un trittico a olio su tela dal titolo esplicativo Tote 1-3 (Morta), entro un ciclo pittorico di quindici dipinti dal titolo 18 Oktober 1977.
Nel trittico riprende la foto della brigatista Ulrike Meinhof, morta suicida in carcere, e la triplica in tre oli di dimensioni scalari, creando come un effetto zoom sul volto esanime. L’opera interroga sulla vita e sulla morte procurata di una persona che, per coerenza politica, non volle arrendersi nella sua personale battaglia. Questo trittico non ebbe alcun successo in Germania che, fortemente segnata dai crimini commessi dalla banda Baader-Meinhof, non colse il senso della riflessione che Richter aveva proposto sulla coerenza della politica militante portata alle estreme conseguenze.
Un altro protagonista di Kassel fu Claudio Bravo, artista cileno che visse molto tempo in Spagna – infatti nel catalogo figura come madrileno – e poi in Marocco. Presenta alla mostra tedesca due disegni dal titolo Adamo ed Eva (cm 174 x 123) realizzati nel 1971; come scrive Italo Mussa «sono lì, semplicemente ritti e con le braccia allineate lungo i fianchi. Aguzzando la vista, forse traspare, dai loro sguardi, una sottile compiacenza seria e naturale: Abbiamo corpi piacevoli, quindi guardateci ma non formulate idee letterarie (non siamo personaggi biblici)»(23). È molto interessante questa notazione di Mussa, giacché molta della produzione artistica di Bravo dedicata a temi sacri lascia questa impressione di pretestuosità tematica: i protagonisti sembrano figuranti che interpretano personaggi biblici. Ma questa è propriamente una dimensione che Bravo si porta dietro dalla sua formazione cilena e poi sviluppa in un clima mediterraneo, che seppur legato per certi versi a un clima religioso cattolico, non ne interpreta minimamente la dimensione sacra come presente, ma piuttosto come un tema lontano nel tempo, e quindi nelle opere i santi appaiono piuttosto vistosamente come “figuranti”.


