Fare qualcosa di irripetibile. Attorno a questo obiettivo è nato Infinito presente, il progetto grazie al quale è giunta a Bergamo una delle star più conosciute dello scenario artistico contemporaneo: Yayoi Kusama. Quando la mostra era ancora solo un’idea, il curatore Stefano Raimondi – racconta – l’ha condivisa con Chrissie Iles, «un’amica sincera, prima ancora che curatrice del Whitney Museum of American Art di New York, che mi ha incoraggiato a richiedere in prestito l’iconica Fireflies on the Water. Ho quindi preparato la domanda e dopo diversi mesi di attesa pensavo che non fosse stata accolta; invece, verso la fine del 2022 abbiamo ricevuto la conferma del prestito dalla commissione del Whitney: un’emozione straordinaria e un dono per la comunità in cui sono cresciuto». L’opera fa parte delle Infinity Mirror Room, cioè quelle stanze ricoperte di specchi e in cui sono presenti alcuni elementi caratteristici della poetica dell’artista. Si tratta di installazioni che accolgono le persone in una dimensione lirica e cosmica, intima e universale: «Potremmo dire che un’Infinity Mirror Room è Yayoi Kusama disciolta in se stessa, il luogo in cui offre l’infinito generato dentro di sé attraverso la sua opera», spiega Raimondi, svelando così anche il significato del titolo della mostra.
Fireflies on the Water, in particolare, è un ambiente buio, con specchi su tutti i lati, mentre al centro della sala una piattaforma panoramica simile a un molo si sporge su una pozza d’acqua che trasmette un senso di quiete. Ulteriore suggestione è creata da centocinquanta piccole luci appese al soffitto e che sembrano lucciole. «Questi elementi creano un effetto abbagliante di luce diretta e riflessa, emanata sia dagli specchi sia dalla superficie dell’acqua. Lo spazio appare quindi infinito, senza cima né fondo, inizio né fine», continua il curatore. Non solo un’opera d’arte, ma per usare un termine molto trendy, una vera e propria “experience”: affinché diventi totalizzante, Kusama ha peraltro richiesto che i visitatori accedano all’installazione uno alla volta.
La mostra tuttavia non è solo questo. La prima parte del percorso approfondisce infatti la personalità e la “partitura” creativa dell’artista, che molti definiscono «la regina dei pois», ed è ancora Raimondi a descrivere questa sezione: «In modo sintetico e diretto vogliamo raccontare alcuni passaggi fondamentali per illustrare una ricerca tanto affascinante quanto complessa e le linee guida che, pur modificandosi, accomunano il percorso di Kusama attraverso diverse decadi. Parliamo dei concetti chiave di ripetizione, accumulo, infinito e “Self-Obliteration”. E così apriamo lo sguardo verso la sua attività di scrittrice e poetessa che a un certo punto della sua vita è stata molto rilevante e continua ancora oggi».
Chi visita la mostra può allora scoprire ciò che sta alla base di opere e creazioni che sembrano leggere, pop, facili, ma che derivano da un vissuto nient’affatto sereno. Da giovane, infatti, Yayoi subì da parte della madre violenze e pressioni psicologiche che le causarono disturbi psichici.
Per trovare una stabilità, per combattere l’ansia e la paura di ogni giorno trovò una strada, l’arte.
Riprendendo quanto ricordato dal curatore, attraverso i processi di ripetizione e accumulo Kusama è arrivata a un punto di dissoluzione dell’io e di connessione con l’universo. È quello che viene definito “Self-Obliteration”, fa sapere ancora Raimondi, che cita le parole della stessa Yayoi: «Gli artisti normalmente non esprimono i loro complessi psicologici in modo diretto, ma io uso i miei complessi e le mie paure come soggetti».
Silenzio, solitudine, meditazione e stupore: in una società rumorosa, terrorizzata dall’introspezione, e che spesso sembra aver smarrito la capacità di meravigliarsi, soffermarsi (tanta è la frenesia e tante sono le distrazioni), la mostra di Bergamo assume allora un grande valore.
«Io credo che oggi più che mai ci sia bisogno di avere del tempo», commenta il curatore. «Un tempo vero di confronto con la propria identità e il proprio percorso, un confronto che può essere anche doloroso ma necessario.
La nostra è una società talmente traumatizzata che non vive più i traumi e per questo li asseconda in una forma di immobilismo e rassegnazione. Mi auguro che questa mostra possa rappresentare un piccolo momento di introspezione – e non una caccia al selfie – per connettersi con l’opera e con se stessi».
