«Oggi siamo bombardati da una tale quantità d’immagini da non saper più distinguere l’esperienza diretta da ciò che abbiamo visto per pochi secondi alla televisione. La memoria è ricoperta da strati di frantumi d’immagini come un deposito di spazzatura, dove è sempre più difficile che una figura tra le tante riesca ad acquistare rilievo».
Era il 1984 quando Italo Calvino scriveva queste considerazioni in una delle sei Lezioni americane, quella dedicata alla Visibilità. E spiegava che se aveva incluso la visibilità nel suo elenco di valori da salvare per l’imminente millennio, era «per avvertire del pericolo che stiamo correndo di perdere una facoltà umana fondamentale: il potere di mettere a fuoco visioni a occhi chiusi, di far scaturire colori e forme dall’allineamento di caratteri alfabetici neri su una pagina bianca, di pensare per immagini». Parole che suonano come un presagio, a noi che siamo ormai sommersi da miliardi di immagini di mondi reali e virtuali.
Nella lezione sulla Visibilità Calvino si autoritrae come un figlio della «civiltà delle immagini », ma «di un’epoca intermedia, in cui erano molto importanti le illustrazioni colorate che accompagnavano l’infanzia, nei libri e nei settimanali infantili e nei giocattoli. Credo che l’essere nato in quel periodo abbia marcato profondamente la mia formazione».
Ci furono, fin dall’inizio, anche le immagini trasfigurate del paesaggio ligure, conosciuto a Sanremo (Imperia) dove i genitori erano rientrati a poco più di un anno dalla sua nascita a Cuba. «Al mattino presto si vede la Corsica: sembra una nave carica di montagne sospesa laggiù sull’orizzonte», scrisse in Uomo nei gerbidi, uno dei suoi primi racconti contenuto nella raccolta Ultimo viene il corvo pubblicata nel 1949.
