Immaginate un'esposizione in cui convivano immagini del volto di Cristo, Eddy Merckx, Guerre stellari, alcune Madonne col Bambino, Beyoncé e Pasolini. E di uscire dalla mostra trovando tutto ciò molto ragionevole.
È quello che possiamo vedere al M Leuven di Lovanio e che il curatore Peter Carpreau definisce un approccio trans-storico: un punto di vista, e un’organizzazione dei materiali in mostra, che ci aiutano a superare alcune barriere tradizionali che potrebbero limitare al tempo in cui operò la nostra possibilità di inquadrare l’artista, impedendoci di cogliere la carica innovativa del suo essere un “image maker”, in un senso molto vicino a quello che attribuiamo oggi a chi si occupa di definire, visualizzare e comunicare l’immagine, appunto, di una figura pubblica, di un’organizzazione, di un brand. Eccessivo? In realtà quel tanto di provocazione che sta nell’operazione del M Leuven di Lovanio non impedisce in nessun modo una lettura della collocazione storico-artistica di Bouts, e forse consente un possibile livello ulteriore di comprensione anche a un pubblico più giovane o semplicemente attratto dalla novità dell’approccio.
La mostra cerca di mostrarci Dirk Bouts come una sorta di filmmaker, o di graphic designer, perché probabilmente così era visto il suo ruolo in quel tempo: fornire immagini funzionali a uno scopo all’interno di un contesto dato. Ma iniziamo a presentare il protagonista. Dirk (o Dieric) Bouts (Haarlem? 1410/1420 - Lovanio 1475) è con Petrus Christus, Jan Memling e Hugo van der Goes uno dei principali esponenti della seconda generazione dei cosiddetti “primitivi” fiamminghi, quella successiva alla generazione di Robert Campin, Jan van Eyck e Roger van der Weyden.
Di quest’ultimo potrebbe essere stato allievo. Ma c’è poco di certo, nei primi decenni della sua biografia. È un fatto che avesse scelto di vivere e lavorare a Lovanio, alla metà del Quattrocento ricca e importante città delle Fiandre, sede di una giovane ma già rinomata università. Nel 1448 sposò la figlia di un ricco commerciante, Katharina van der Brugghen (nei pettegolezzi di paese indicata come Katharina Metten Ghelden, cioè “con i soldi”). Vent’anni dopo diventò pittore ufficiale della città: aveva appena terminato quello che è considerato il suo capolavoro, il Polittico del santissimo Sacramento – o Ultima cena, tema della tavola centrale –, conservato nella Sint-Pieterskerk.
La sua figura di artista appare enigmatica, è stato a lungo considerato un “pittore del silenzio” (definizione un po’ generica che si tende ad attribuire a molti artisti nordici), contemplativo, misterioso. Questa mostra cerca di portare in luce, al contrario, una personalità forte e una strategia di comunicazione attraverso la pittura perfettamente sintonizzata con l’ambiente che lo circondava, in particolare nel suo rapporto stretto con i circoli umanistici e i teologi della locale università, e con le tendenze e richieste del mercato a cui si rivolgeva.