In una delle pitture più suggestive del Paleolitico, l’abile mano di un nostro antenato ha effigiato, circa diciottomila anni fa, sulle pareti delle grotte di Lascaux, un branco di cervi impegnati ad attraversare un corso d’acqua. Colui che ha dipinto questa immagine non ha soltanto rappresentato una scena realistica alla quale ha probabilmente assistito, ma potremmo credere che abbia tentato anche di comunicare la natura trascendente di questo maestoso mammifero, attribuendo a quel fiume che i cervi attraversano il significato di confine tra materia e spirito. La storia dell’arte, in seguito, ha contribuito a tramandare nel corso dei secoli l’immagine di questo animale, caratterizzandolo come simbolo di ascetica bellezza e di sommesso dolore.
Nel 1946 Frida Kahlo si ritrae nelle sembianze di un cervo ferito, trafitto da più frecce, mentre corre in un bosco costellato di alberi secchi. In quello stesso anno, a New York, la pittrice si era sottoposta senza successo a un intervento chirurgico, con cui aveva cercato di ricomporre la frattura alla spina dorsale, causata dallo spaventoso incidente del 1925 avvenuto a Città del Messico, quando l’autobus su cui viaggiava si era scontrato frontalmente con un tram. L’artista, com’è noto, aveva tratto da quella condizione di dolore la propria vitalità creativa, adottando uno stile pervaso da tragico fatalismo. Nel Cervo ferito, infatti, in basso a sinistra, accanto alla propria firma, Frida ha scritto la parola «Carma». L’animale ferito, dunque, esprime la delusione provata dalla pittrice per l’esito negativo dell’operazione, che non le ha permesso di liberarsi dal busto di acciaio, usato quotidianamente per sostenere la schiena.
Inoltre, con questo dipinto, Frida Kahlo manifesta lo sconforto per l’impossibilità di divenire madre, poiché nello stesso incidente del 1925 aveva riportato delle insanabili lesioni all’utero, che le avevano causato diversi aborti spontanei(1). Per questa ragione, quella fronda stesa in terra, sotto il ventre del quadrupede, dovrebbe appartenere alla specie arborea della Ceiba, come rivelerebbe la caratteristica foglia a losanga. È un’imponente pianta che può raggiungere i settanta metri di altezza, considerata tanto sacra dai maya da esser chiamata «albero della vita». Gli stessi voluminosi tronchi, che intravediamo nel bosco, appartengono indubbiamente alla possente pianta. Sono tronchi di alberi secchi, come accennato sopra, e verrebbe da dire che, nella visione disillusa di Frida Kahlo, gli alberi della vita siano diventati alberi della morte. E poiché la pittrice si è ritratta nella fisionomia di un cervo maschio, giacché le femmine sono prive di corna, sembrerebbe che con questa opera abbia voluto rivelare da un lato la propria coscienza mascolina, dall’altro una tenera inclinazione verso la maternità. Nella Casa Azul di Coyoacán, dove abitava, l’artista amava accudire vari animali, tra cui un cane, una scimmietta e un adoratissimo cerbiatto, di nome Granizo. Frida Kahlo riconosceva nel cervo quella natura timida e fuggevole, per cui questo animale era stato capace d’incarnare i sentimenti più alti e segreti.
Nel 1979 esce sugli schermi Il cacciatore, realizzato da Michael Cimino, che aveva studiato architettura e pittura. Nell’ideazione del film, il regista venne probabilmente anche ispirato dagli scritti del naturalista e illustratore Ernest Thompson Seton, che fu tra i pionieri nello studio del cervo nel suo ambiente naturale(2). La pellicola racconta del reduce di guerra Mike, il quale, durante una battuta di caccia, lungo il crinale di immacolate montagne, giunto al cospetto di un cervo, non gli spara: aveva rivisto nell’animale da lui inseguito la figura dell’amico Nick, rimasto a combattere in Vietnam. E forse Cimino aveva tenuto anche a mente, per la stesura della sceneggiatura, la leggenda del generale romano Eustachio, al quale, mentre era sul punto di uccidere un cervo, apparve tra le corna dell’animale un Cristo crocifisso, che lo invitò a convertirsi.
In realtà, l’aurora della letteratura aveva già contornato di una luce mistica la sagoma di questo animale quando, nel X secolo a.C., il re Davide aveva scritto il Salmo 42: «Come la cerva anela al corso d’acqua, così desidero vedere il tuo volto, o Dio». Un verso tanto poetico da diventare fonte d’ispirazione non solo per la realizzazione di splendidi mosaici nelle chiese medievali, ma anche per dipinti come, per esempio, il delicato acquerello di Winslow Homer del 1892.


