Dentro l'opera

“La pittura è un viaggio”,
in canoa

Un primo piano su opere meno note dal secondo Novecento a oggi, per scoprirne il significato e l’unicità nel continuum della storia dell’arte: Peter Doig

Cristina Baldacci

SSalito alla ribalta con i suoi misteriosi paesaggi marini attraversati da canoe, un motivo ricorrente delle sue opere dalla fine degli anni Ottanta, Peter Doig (Edimburgo, 1959) è uno dei pittori contemporanei più celebrati a livello di mercato e di critica. Sono proprio le sue tele con canoe che lo hanno fatto diventare artista dei record, a cominciare da White Canoe (1990-1991), che nel 2007 fu venduto da Sotheby’s, a Londra, per 11,3 milioni di dollari, fino a Swamped (1990), che è stato battuto all’asta da Christie’s, a New York, nel 2015 per 25,9 milioni di dollari e poi ancora nel 2021 (sempre da Christie’s a New York) per ben 39,8 milioni di dollari.

L’ultimo riconoscimento importante arriva da Parigi, dove il Musée d’Orsay ha invitato l’artista a esporre alcuni dei suoi quadri maggiori a fianco dei capolavori della collezione permanente, tra cui Gauguin, Manet, Seurat e il Doganiere Rousseau (la mostra, in corso fino al 21 gennaio, s’intitola significativamente Reflets du siècle). Tutti nomi amati da Doig, che in più occasioni ha affermato che mentre dipinge pensa continuamente ad altri pittori. Le sue composizioni nascono infatti da un lento e meditato lavoro di montaggio che si avvale di diversi riferimenti visivi preesistenti, tra cui immagini della storia dell’arte, dei media, della vita stessa.


La fotografia come modello iconografico per la pittura gioca pertanto un ruolo di primo piano nella pratica di Doig, che da studente (prima alla Wimbledon School of Art, poi alla St. Martin’s School e al Chelsea College of Arts di Londra, dove incontrò Chris Ofili, da allora diventato suo inseparabile amico e collega) preferiva proiettare sulla tela copie fotografiche di immagini “trovate” invece di disegnare a mano libera. Della lunga gestazione che richiede ogni suo dipinto, è un esempio anche Two Trees (2017), a cui Doig ha lavorato per ben otto anni. Raccontando la sua genesi a Calvin Tomkins (cfr. l’articolo The Mythical Stories in Peter Doig’s Paintings, in “New Yorker” online, 4 dicembre 2017), l’artista svela il debito e forte legame sia nei confronti della Zingara addormentata (1897) di Rousseau, sia di Trinidad, l’isola caraibica dove si era trasferito per alcuni anni (1961-1966) con la famiglia da bambino e che poi, dal 2002, è diventata di nuovo la sua casa per scelta.

Il paesaggio lunare sul mare, che è co-protagonista del dipinto insieme ai due tronchi d’albero e alle tre figure in primo piano, non è solo quello memore di Rousseau, ma richiama anche la vista che Doig ha sotto gli occhi ogni giorno a Trinidad. «All’inizio», racconta, «erano solo i due alberi che si vedono dalla doccia esterna della mia casa sulla costa nord. Se guardi attraverso di loro, guardi direttamente verso l’Africa. Pensi a quel viaggio attraverso l’oceano, da cui provengono così tante persone qui. Il dipinto non lo riguarda, ma [quel viaggio] è comunque presente. Per me il dipinto riguarda l’essere complici, l’essere coinvolti in qualcosa di terribile».

Si svela così in parte l’enigma di questa scena il cui realismo ha qualcosa di magico e di documentaristico insieme: non fosse altro che per la presenza della macchina fotografica in mano al ragazzo con la camicia arlecchino, che sta riprendendo l’orizzonte. All’apparenza un paesaggio idillico, a un livello più profondo Two Trees rappresenta una personale riflessione sulla storia del colonialismo e della schiavitù – e del viaggio come passaggio, migrazione – e dei suoi retaggi nel presente (l’isolotto di Carrera nel golfo di Paria a Trinidad, che Doig ha visitato più volte, è tuttora un carcere). Come uomo bianco in terra creola, che probabilmente si autoritrae anche nel dipinto nelle vesti di un giocatore di hockey (vedi la figura sulla sinistra con la maglia o felpa astratto-espressionista), sport da lui praticato, Doig ne è particolarmente cosciente. La tela è per lui un «dispositivo» che unisce diverse visioni e dove la relazione tra fotografia e pittura, presente e passato, si (ri)attiva come nei dipinti di altri artisti contemporanei, in particolare Gerhard Richter, Marlene Dumas e Luc Tuymans.