Storie a strisce 

I PRIMI CENT’ANNI
DI LISCA DI PESCE

Sergio Rossi

Due mostre, a Termoli (Campobasso) e a Roma rendono omaggio, a cent’anni dalla nascita, a Benito Jacovitti, uno dei più grandi fumettisti italiani, soprannominato “Lisca di pesce” per l’esile corporatura

Dal suo esordio nel 1939 sul periodico fiorentino “Il brivido”, a sedici anni, fino alla scomparsa nel dicembre del 1997, Benito Jacovitti ha scritto e disegnato migliaia di storie, creato più di cento personaggi, come il cowboy Cocco Bill, che beve solo camomilla, e lo spadaccino mascherato Zorrykid; ha realizzato molte versioni del Pinocchio di Collodi, dal 1949 al 1977, e le vignette del Diario Vitt, di fronte alle quali hanno riso generazioni di scolari. «Il metodo che sta dietro a questa enorme produzione», racconta il giornalista e storico del fumetto Luca Raffaelli, «era sempre lo stesso: divideva ogni pagina in vignette e poi si metteva a disegnare direttamente a china, senza seguire una sceneggiatura o un canovaccio. E quando un segno si rivelava sbagliato, non lo cancellava ma lo intrecciava con quello corretto».

Per celebrare il genio e la produzione sterminata di questo autore nel centenario della nascita, è nato il progetto Jacovittissimevolmente che si compone di due mostre a lui dedicate. La prima, Tutte le follie di Jac!, a cura di Luca Raffaelli, presso il MACTE - Museo di arte contemporanea di Termoli, città natale di Jacovitti, permette ai lettori di entrare nel suo metodo di lavoro che, inizialmente ispirato dal segno di Popeye di E. C. Segar, ha saputo creare uno stile unico al mondo. La seconda, L’incontenibile arte dell’umorismo, presso il MAXXI - Museo nazionale delle arti del XXI secolo di Roma, a cura di Dino Aloi e Silvia Jacovitti, con Giulia Ferracci, presenta i cento personaggi creati nel corso della lunga carriera del geniale fumettista.

«Mio padre mi diceva che in realtà la sua carriera è iniziata quando aveva sei anni», racconta Silvia Jacovitti, un passato da regista Rai e oggi custode dell’eredità artistica del padre. «All’epoca disegnava per terra, sui marciapiedi di Termoli; la gente che passava e vedeva i suoi disegni gli dava dei soldi, che furono la sua prima paga. Suo padre, mio nonno, era ferroviere e proiezionista, e di fronte al suo talento decise che Benito non avrebbe seguito le sue orme come mio zio Mario, e quindi lo fece studiare all’istituto d’arte di Firenze: un fatto incredibile per l’epoca. Il disegno è stato il suo riscatto da una vita già segnata».


Una vignetta.