Grandi mostre. 4
MARIONETTE E AVANGUARDIA
A REGGIO EMILIA

IL TEATRO DEI
BURATTINI

DIVERSE SONO LE TRADIZIONI CHE HANNO AVUTO COME PROTAGONISTE LE MARIONETTE TANTO IN OCCIDENTE QUANTO IN ORIENTE. E DIVERSI SONO GLI ARTISTI DEL SECOLO SCORSO, CHE NE SONO RIMASTI COLPITI AL PUNTO DA LASCIARNE TRACCIA NEL LORO PERCORSO CREATIVO.

Lauretta Colonnelli

«Seid ihr alle da?» Ci siete tutti? Cominciavano sempre così gli spettacoli di burattini in lingua tedesca. La domanda corrispondeva al «C’era una volta» delle favole. Ed era rivolta a bambini e adulti, a persone abbienti e povere. Perché questo tipo di rappresentazioni includeva tutti. Come era stato da sempre, da quando il teatro di figura era nato contemporaneamente nei palazzi dei principi, dove i protagonisti in scena erano chiamati marionette e venivano manovrate dall’alto, e nel mondo turbolento delle strade e della pubblica piazza, dove erano chiamati burattini ed erano manipolati dal basso. La prima tradizione era artistica, cortese e raffinata; l’altra popolare, politica e sovversiva.

Ai due filoni appena descritti si aggiunse, sul finire dell’Ottocento, la scoperta del burattino a bacchetta giavanese, che ebbe un impatto non solo su entrambe le usanze, ma anche sul ruolo degli attori in carne e ossa, sui registi, sugli autori e sulle avanguardie artistiche del Novecento, perfino sul cambiamento sociale nelle rivoluzioni che segnarono la prima metà del secolo. Quel burattino era tipico del Wayang Kulit, il caratteristico teatro delle ombre di Giava, appunto, in Indonesia. Veniva impiegato nelle feste di villaggio, nei riti di passaggio, nella magia divinatoria e nell’oratoria politica. I genitori davano ai loro figli i nomi delle stesse figure giavanesi. Ancora oggi le immagini dei burattini sono dipinte sulle fiancate degli autobus e dei risciò. Durante la dittatura di Suharto (1966-1998), i burattinai fungevano da referenti per la diffusione della propaganda governativa tra una popolazione in gran parte analfabeta.

Tra gli artisti occidentali che più si avvicinarono al Wayang ci fu Egon Schiele. Lo fece attraverso il critico d’arte Arthur Roessler, suo mercante, amico e mentore, che aveva una piccola collezione di marionette giavanesi splendidamente dipinte, tagliate in pelle di bufalo e finemente filigranate.

Nel suo libro su Schiele, pubblicato dopo la morte dell’artista, Roessler raccontò che «per ore poteva giocare con queste figure senza stancarsi e senza dire una parola». Pare che la figura più amata fosse Cakil, il demone acrobatico e dalla parlantina veloce, antagonista di un raffinato cavaliere nella battaglia dei fiori, scena canonica del teatro delle ombre giavanese. Il suo stile di combattimento istrionico e i suoi guaiti, urla e gemiti acuti contrastano con i movimenti maestosi e misurati del cavaliere. Lo storico dell’arte Nathan J. Timpano ha sostenuto che il gioco di Schiele con il Cakil abbia lasciato un’impronta profonda sulla sua arte: in una serie di ritratti, a partire dal 1910, possiamo vedere l’artista austriaco appropriarsi della giuntura, dell’angolarità, dei corpi visti da prospettive multiple e delle proprietà cinetiche del Wayang.

Intanto Richard Teschner, artista e designer di origine boema, vedeva per la prima volta il teatro Wayang ad Amsterdam nel 1911, mentre si trovava in viaggio di nozze.


Otello Sarzi Madidini, Angoscia, all’interno di “Quello che penso ti dico” (1968), Reggio Emilia, Fondazione Famiglia Sarzi.


TESCHNER SI DEDICÒ A RINNOVARE IL TEATRO DI FIGURA OCCIDENTALE E SVILUPPÒ L’ARTE DELLA MARIONETTA A BASTONE, ARRIVANDO A INFLUENZARE GLI ARTISTI DA PARIGI A MOSCA