Dentro l'opera

LA LINEA SOTTILE
tra umano e non-umano

Cristina Baldacci

Un primo piano su opere meno note dal secondo Novecento a oggi, per scoprirne il significato e l’unicità nel continuum della storia dell’arte: Pierre Huyghe

Pierre Huyghe (Parigi, 1962) è emerso sulla scena internazionale all’inizio degli anni Duemila, proprio quando il critico e curatore francese Nicolas Bourriaud (suo coetaneo) lo incluse tra gli artisti di cui vedeva concretizzarsi il lavoro nella postproduzione (Postproduction. Come l’arte riprogramma il mondo è il titolo del suo fortunato saggio del 2002).

Fin dagli esordi negli anni Novanta, la pratica di Huyghe si è di fatto caratterizzata per l’appropriazione e la rielaborazione di immagini preesistenti che rappresentano finzioni sociali, con l’intento di criticare i modelli narrativi dominanti e quindi smascherare i sistemi di potere, restituendo all’osservatore un ruolo attivo come attore o “co-sceneggiatore” nella comprensione e costruzione della realtà. Una prassi a cui ben presto si abbina l’interesse per la relazione tra umano e non-umano, inteso sia come animale o vegetale, sia come artificiale, che indirizza la sua ricerca verso un approccio non antropocentrico.

A partire dalla sua partecipazione alla Biennale di Venezia del 2001, nel padiglione francese, con Le Château de Touring – una riflessione sui tre diversi modi, umano, animale e artificiale, di processare le informazioni – le sorprendenti installazioni multimediali di Huyghe colpiscono e incuriosiscono particolarmente per questo aspetto. Seguono, giusto per citare alcune delle presenze dell’artista nelle maggiori grandi mostre internazionali, l’ambiente “senza titolo” (Untitled, 2012) alla documenta (13) di Kassel, che ricreava una co-esistenza tra culturale e naturale, e After Alife Ahead (2017), altro “environment” tra il biologico e il tecnologico, allestito all’interno di un ex palazzetto del ghiaccio durante Skulptur Projekte a Münster, dove organismi viventi, oggetti inanimati e dispositivi high-tech interagivano tra loro.

Il legame tra umano e non-umano ritorna anche nel film Untitled (Human Mask) del 2014, ambientato in un ristorante abbandonato a Fukushima, in Giappone, in seguito al disastro ambientale che, tre anni prima (2011), si era abbattuto sulla città per lo tsunami e il conseguente incidente nella centrale nucleare. In quello scenario altamente distopico si consuma il dramma di colei che appare come l’unica superstite: una scimmia travestita da ragazza, con indosso una divisa da inserviente, una parrucca dai lunghi capelli neri e una maschera bianca con un’inespressività che ricorda i volti androidi o quelli del teatro Nō femminile. Simile a un automa, ripete ininterrottamente gli stessi gesti, scimmiottando il fare umano (in Giappone esistono ristoranti con primati in veste di camerieri), che si trasforma in un rituale ormai privo di senso.

Come in una pièce beckettiana, nel film si alternano suspense, alienazione, ermetismo, e il tempo, scandito da azioni sempre uguali nell’attesa di un qualcuno che non arriverà o di un qualcosa che non accadrà, sembra non finire mai.

L’automatismo tipico della macchina, che con la modernità diventa anche prerogativa dell’uomo, è un altro tema ricorrente nelle opere di Huyghe, a cominciare da Annlee, il personaggio d’animazione giapponese i cui diritti vengono acquistati nel 1999 insieme all’amico Philippe Parreno. Scelta appositamente tra centinaia di altri personaggi presenti in catalogo perché senza qualità, Annlee, la cui maschera-volto è molto simile a quella indossata dalla scimmia in Human Mask, diventa protagonista di un progetto condiviso con tredici colleghi, che, per tre anni, la reinterpretano con attributi e in situazioni sempre diversi, trasformando un’immagine di consumo in un modello di co-autorialità artistica(*).


Pierre Huyghe, Untitled (Human Mask), 2014, film, colore, suono, 19’.