«È lui il peggior artista in America?». Se lo chiedeva la rivista “Life” nel 1964 titolando così un articolo dedicato a Roy Lichtenstein. Troppo banale quel professore metodico, pacato, dalla vita routinaria, troppo semplici le sue opere che sembrano stampe anche se sono dipinte. Certo, niente a che fare con il vulcanico ed effervescente Andy Warhol che sfacciatamente portava nelle gallerie e nei musei gli scaffali dei supermercati americani con tanto di brand e marchio di fabbrica. Anni luce lo separavano anche da uno dei protagonisti principali dell’espressionismo astratto, Jackson Pollock, che la stessa rivista nel 1949 aveva individuato come il più grande pittore americano vivente.
Eppure, le opere di Lichtenstein divennero sempre più famose e ricercate nel mercato dei collezionisti americani e oggi sono vendute all’asta per milioni di dollari. Gli anni Sessanta del secolo scorso, quando “Life” pubblicò l’articolo sopra citato, furono in effetti quelli in cui l’artista, già quarantenne, cominciava ad affacciarsi sulla scena statunitense, tra apprezzamenti e critiche radicali.
A partire dal 1960, Lichtenstein aveva infatti iniziato a copiare tecniche di stampa industriali, utilizzando i punti di retino – conosciuti come punti Ben-Day, dal suo ideatore Benjamin Day –, e a mescolare immagini frivole e quotidiane, dai fumetti alla pubblicità. Look Mickey! è la prima opera del 1961 che segna l’inizio di uno stile che diventerà il simbolo della sua carriera dedicata al Pop. E in realtà fu proprio l’anonima e meccanica Pop Art a sfidare il pathos poetico degli espressionisti astratti e a vincere la battaglia diventando lo specchio della società americana, consumista e ottimista. Lichtenstein, nella sua ordinata vita quotidiana senza scandali né provocazioni, fu insieme a Warhol e Rosenquist, suoi contemporanei, tra i principali interpreti di una rivoluzione che spostò definitivamente la capitale dell’arte da Parigi a New York dando il via a una nuova era culturale.
Oggi è il museo dell’Albertina di Vienna che, a questo artista, nel centenario della nascita, dedica una grande retrospettiva riunendo novanta opere tra dipinti, sculture e grafiche arrivati da una trentina di istituzioni e collezionisti privati sparsi in tutto il mondo. Il percorso comincia con il 1961, quando la galleria di Leo Castelli, triestino trapiantato a New York, aprì piuttosto inaspettatamente le porte a Lichtenstein, lasciando Andy Warhol “in panchina”.
Fu così che quei fumetti – Topolino, Braccio di Ferro e tutte le romantiche donne perse nei loro sogni d’amore – nonché i soggetti pubblicitari arrivarono per la prima volta al grande pubblico, non senza stroncature e biasimi. Più tardi fu la volta degli onomatopeici e ormai famosi Whaam! e Takka Takka, fumetti di guerra che suggeriscono con i loro nomi la brutalità e la violenza dei conflitti armati. È la fotografia della società americana, un’immagine riflessa che vuole essere completamente anonima perché non aveva lo scopo di criticare, né di migliorare l’umanità. «Il fine principale dei miei quadri di guerra non è quello di porre in una luce assurda l’aggressività militare», spiegava lo stesso artista. «Il tema dei miei lavori è piuttosto la nostra definizione americana di immagini e di comunicazione visiva ». L’intenzione esplicita, dunque, è quella di far diventare opere d’arte gli oggetti della vita quotidiana, ciò che fino a quel momento era stato escluso dalla cultura elitaria, armi comprese. E allora basta con il tormento poetico dei colleghi espressionisti, basta con la sacralità dell’arte colta dei classici, che pure Lichtenstein conosceva e amava.
