«Nella bellezza è la Bontà, nella bellezza è la Carità, nella bellezza è l’Amore»: è con toni ispirati, quasi religiosi che Leonardo Bistolfi, lo scultore monferrino maestro del simbolismo, nel maggio del 1902 sulla rivista “L’arte decorativa moderna” vagheggiava l’ideale catartico-palingenetico del movimento che in quei mesi celebrava i suoi fasti nella epocale Esposizione internazionale allestita nel parco torinese del Valentino. Art Nouveau, come era chiamato in Francia e in Belgio, o Modern Style nel Regno Unito, Jugendstil in Germania, Sezession in Austria, Arte Joven in Spagna (per non citare che le principali declinazioni nazionali), e in Italia noto come stile Liberty – dal nome del grande magazzino londinese e del suo eponimo fondatore, felicemente adatto a evocarne la programmatica libertà da ogni vincolo accademico.
L’aspirazione alla bellezza come fine privilegiato dell’operare artistico non era certo una novità nella storia umana. Mai, però, aveva conosciuto i livelli di sistematicità e pervasività, e in alcuni casi anche serialità, che raggiunse in quella temperie culturale, nel quarto di secolo iniziato nell’ultimo decennio dell’Ottocento, con il trasloco dal recinto delle belle arti al vasto campo delle arti applicate.
