La costruzione del mito della Grecia come deposito di modelli artistici universali ha radici antiche, e si fonda su fonti letterarie e monumentali. Nel catalogo della mostra su Fidia in corso a Roma un saggio di Eloisa Dodero racconta una tappa di questo percorso a partire dalla riscoperta quattrocentesca della scultura classica greca da parte di alcuni umanisti. Importante, in questo processo, il ruolo dei Dioscuri che vediamo oggi campeggiare davanti al palazzo del Quirinale, sculture che un’iscrizione antica attribuiva a Fidia e a Prassitele, alla metà del V secolo a.C. quindi, e che oggi si ritiene possano essere in realtà opere romane del III secolo d.C., copie di originali ellenistici.
I due Dioscuri e i loro cavalli erano stati ritrovati nell’area – vicina – in cui sorgeva un tempio di epoca severiana; la vasca della fontana su cui si ergono viene invece dall’antico Campo vaccino, mentre l’obelisco fu sottratto ai materiali della tomba di Augusto a Ripetta. Un processo di disinvolto riutilizzo di materiali antichi, considerati come mattoncini del Lego, durato secoli e che ha determinato molta parte dell’assetto urbanistico e della decorazione urbana di Roma. La piazza fu completata così com’è solo nel 1818, ma i due Dioscuri erano già in quei paraggi, è appunto lì che li vide Ciriaco d’Ancona nel 1433 con la scritta apocrifa che li attribuiva a quei due nomi che già dovevano risuonare come i soli degni di vedersi assegnare tanta mole di eccellenza creativa. Un’abitudine – quella del patchwork e del fake – che ha reso più farraginosa, ma a maggior ragione meritoria, la lettura filologica dei resti antichi che costellano il tessuto urbano della città. Il nome di Fidia era associato al periodo più alto dell’arte greca già da autori romani come Plinio il Vecchio e Cicerone. Fatto sta che a Fidia sono stati attribuiti, dallo stesso Ciriaco, pure i Cavalli di San Marco a Venezia, che erano invece opera ellenistica e frutto di un saccheggio, quello operato dai crociati a Costantinopoli nel 1204, quando le truppe benedette dal papa avevano ritenuto più redditizio attaccare una capitale cristiana piuttosto che impelagarsi nell’ennesima carneficina con le milizie islamiche che presidiavano la Terra Santa.
Costruzione del mito e razzie hanno spesso fatto lunghi tratti di strada insieme.
Il bisogno di ritrovare la classicità perduta cercandola un po’ ovunque si accentuò con la caduta di Costantinopoli alla metà del XV secolo e il passaggio di Atene e dell’intera Grecia sotto il dominio ottomano. La possibilità di visitare quei luoghi divenne appannaggio di pochi.
Il capolavoro riconosciuto di Fidia, il Partenone, fu oggetto di tentativi di spoliazione già nel secolo XVII (ancora da parte di veneziani); nel 1687 l’edificio fu addirittura bersaglio di un bombardamento. Finché ai primi dell’Ottocento una porzione molto significativa della sua decorazione scultorea – parte delle decorazioni frontonali, di alcune metope, il fregio delle Panatenaiche – venne trasferita a Londra. Quei marmi – acquisiti da Lord Elgin, ambasciatore britannico a Costantinopoli mentre la Grecia era sotto il dominio turco – dopo un primo periodo di perplessità vennero universalmente esaltati come capolavori dell’arte greca classica. La razzia ancora una volta agevolò la costruzione del mito. Tra le motivazioni addotte da Elgin c’era anche quella di un’esigenza di conservazione che sarebbe stata messa a rischio dalla permanenza in loco delle sculture: un patetico alibi per un atto vandalico, secondo George Byron, guida riconosciuta del movimento internazionale degli intellettuali filelleni.
Altri accolsero l’arrivo dei marmi a Londra come un’occasione di confronto finalmente praticabile per chiunque amasse le arti. Da segnalare la determinante richiesta di Antonio Canova di non eseguire alcuna integrazione delle lacune esistenti nelle composizioni (se non un “restituire”, almeno un “giù le mani”). Il parlamento inglese deliberò che i marmi sarebbero stati più al sicuro al British Museum, in un “paese libero”, che in patria. E lì si trovano. Lord Elgin ebbe trentacinquemila sterline, meno di quanto avrebbe potuto incassare vendendo a uno dei numerosi aspiranti acquirenti stranieri.
Oggi il dibattito verte sulla restituzione, tema comune a moltissimi altri luoghi museali del mondo occidentale; sono stati messi in discussione la legalità dei documenti prodotti a suo tempo da Elgin, e la legittima richiesta di un “paese libero” (stavolta la Grecia) di rientrare in possesso di un patrimonio finalmente e opportunamente reinseribile nel suo contesto originale e in condizioni di tutela garantite (seppure non in esterno). Nel 2019 l’Unesco ha espresso un richiamo al governo britannico e al British Museum per un atteggiamento più aperto al dialogo e alla mediazione. Il processo di decolonizzazione delle collezioni museali è da alcuni anni al centro del dibattito internazionale.
Ogni opposizione a restituzioni, soprattutto se motivate da vizi di acquisizione, appare velata da una patina – magari residuale, involontaria se non inconsapevole – di mentalità colonialista. Fidia potrebbe prima o poi tornare dove tutto era iniziato
