Oggetto misterioso SULLE ROTTE DEL PORFIDO Gloria Fossi VENIVA DA LONTANO, DAL DESERTO PETROSO ALLE SPALLE DEL MAR ROSSO. SIMBOLO IMPERIALE A ROMA E POI A BISANZIO, IL PORFIDO ERA TANTO BELLO A VEDERSI QUANTO DURO DA LAVORARE. NEL MEDIOEVO DIVENNE UNA RARITÀ MA QUALCHE PITTORE GENIALE RIUSCÌ A IMITARLO. er quel suo colore unico, quasi cangiante, per quella sua singolare lucentezza, il porfido rosso antico (“porphyrites” in greco, “purpureus” in latino) è stato per secoli il più ricercato fra i marmi e le pietre dure impiegati in monumenti e opere d’arte. Una colonna, un sarcofago, una scultura in porfido manifestavano a prima vista, ai tempi dell’impero romano e poi di quello bizantino, i più alti significati simbolici: perché il porfido era bellissimo, era rarissimo, e nei secoli divenne sempre più introvabile, vedremo fra poco perché. Inoltre, era tanto duro da costituire una vera sfida per artigiani, scalpellini, scultori che riuscivano a lavorarlo solo se dotati di alta perizia tecnica e armati di molta pazienza. P Nella Roma antica il porfido si usava per statue, colonne, sarcofagi, targhe, pavimenti pregiati. Di porpora vestivano gli imperatori, di porfido erano i loro troni e le urne che ne accoglievano le spoglie. A Bisanzio il fastoso e complesso cerimoniale di corte faceva obbligo alla regale puerpera di partorire in un palazzo arditamente affacciato, dall’alto di uno sperone, sul mar di Marmara. La sala del parto era appositamente rivestita di porfido rosso (“porphyra”). Il neonato avrebbe potuto fregiarsi del titolo di “porphyrogenitus” solamente se venuto alla luce in quell’ambiente così singolare: come dire, nasceva nella porpora. Disco di porfido rosso antico, particolare del pavimento del trono imperiale (VI secolo), Istanbul, ex basilica bizantina di Santa Sofia. Quella sala è scomparsa, e chissà se qualche frammento di quelle decorazioni non sia finito a decorare qualche opera d’arte giunta fino a noi, in Occidente: perché il porfido è rimasto un segno di prestigio e di bellezza. Non c’è città d’arte nel nostro paese (Roma, Firenze, Venezia, Ravenna, fra le tante) che non vanti almeno una scultura o un arredo in porfido rosso egiziano. Alzando gli occhi in qualche piazza di antiche origini può accadere di vedere un obelisco o una colonna antica sormontati da una scultura in porfido. Molte chiese racchiudono poi, come arredi di particolare pregio, colonne di reimpiego o sarcofagi antichi in porfido. Ci sono poi sculture a tutto tondo, come i meravigliosi Tetrarchi, posti a un angolo esterno della basilica di San Marco a Venezia: quattro figure abbracciate, in porfido rosso egiziano, quasi a grandezza naturale. Gli esempi più suggestivi si ammirano però nella ex basilica bizantina di Santa Sofia a Istanbul, l’antica Costantinopoli. Dopo aver varcato il maestoso porticato, all’interno della chiesa oggi divenuta moschea, procedendo oltre le colonne dell’ingresso reimpiegate da antichi monumenti, verso il fondo dell’aula centrale, spicca un pavimento incrostato di marmi, con al centro un disco di porfido. Qui sedeva l’imperatore bizantino. Nell’Occidente cristiano ritroviamo quel disco raffinato in molti dipinti del Rinascimento: fra gli altri, a Firenze, nella Pala del cardinale del Portogallo di Antonio e Piero del Pollaiolo (Uffizi), già nella cappella della basilica di San Miniato al Monte , sempre nel capoluogo toscano. (1) Jacopo Pontormo, Stemma familiare congiunto delle famiglie Della Casa e Tornaquinci incorniciato da finto porfido, rovescio del desco da parto con la Natività di san Giovanni Battista (1526 circa), Firenze, Uffizi. Note G. Fossi, Galleria degli Uffizi, Arte storia collezioni, Firenze 2022, (1) p. 124. Difficile dire quale dei due fratelli del Pollaiolo abbia realizzato questo elegante dettaglio ornamentale, ma certo non stupisce la verosimiglianza strabiliante col porfido vero. La bottega fiorentina dei Pollaiolo era rinomata per la lavorazione dei materiali più disparati, e i finti marmi dipinti nella pala di San Miniato dovevano costituire un collegamento ideale, una sorta di prolungamento da sopra l’altare dove si trovava la pala, con le decorazioni del vero pavimento marmoreo che ancora decora la cappella del cardinale del Portogallo. Per restare agli Uffizi, un esempio di finto porfido, stavolta manierista, si riconosce nel verso di un dipinto del Pontormo, realizzato nella tipica foggia circolare del desco da parto, che nelle aristocratiche famiglie fiorentine il marito usava donare alla puerpera. Si trattava di oggetti preziosi, e questo era stato richiesto al Pontormo dal giovane esponente di un’illustre casata, Giovanni della Casa , verso la fine del 1526: cioè poco prima della nascita, avvenuta il 15 gennaio del 1527, del figlio Aldighieri. La puerpera era Lisetta Tornaquinci, che Giovanni aveva sposato nel 1521. Il bordo dipinto, che inquadra i simboli araldici dei due sposi, sembra più vero del vero. Pontormo ha qui simulato con perfezione quasi magica una cornice lavorata e modanata in porfido rosso egiziano. Non ci si stanca di ammirarla, e perfino dal vero, nella sala degli Uffizi dove l’opera è esposta protetta da un vetro, l’occhio s’inganna credendo di pietra ciò che invece è dipinto. (2) Perché il porfido era considerato così prezioso? Da dove veniva questa pietra dura raffinatissima? In tempi antichi si cavava dalle rocce di un monte egiziano, accessibile dalla via Hadriana, che dalla città di Antinopolis sul Nilo raggiungeva a sudest i porti di Myos Hormos e Berenice sul mar Rosso. Anni fa ho ripercorso quel tragitto in automobile, inoltrandomi, a cinquanta chilometri da Myos Hormos, a ovest, nel deserto costellato di “uadi” che serpeggiano tra montagne petrose. L’itinerario con mezzi moderni non è particolarmente agevole, figurarsi in passato. La luce abbaglia anche senza il riverbero del mare cristallino lasciato alle spalle, ma proseguendo nel deserto, al tramonto, le ombre si fanno meno nette, ed ecco che la sagoma grigia dello Jabal Abu Dukhan (1600 metri) assume un suggestivo profilo: quello del Mons Porphyrites dell’antichità. È qui che si cavava il porfido rosso antico. Per raggiungere i grandi centri dell’Occidente il materiale cavato faceva un lungo percorso. Le pesanti rocce magmatiche venivano sbozzate in loco (dagli schiavi, come sempre, purtroppo), poi venivano trasportate con i carri fino al Nilo, da dove coi barconi giungevano ad Alessandria d’Egitto. Ulteriormente lavorate, partivano per Ostia e poi giungevano a Roma, dove pare venissero rilavorate da maestranze alessandrine. Nonostante l’idea d’immortalità che ancor oggi sprigiona, il porfido rosso antico non fu eterno. Nella metà del V secolo le cave egiziane furono dismesse e da allora, sempre più ambito e raro, poté essere solo recuperato da arredi antichi. Oppure, divenne uno dei banchi di prova per il pittore, in perenne sfida con la natura. Dopo gli anonimi artisti di Roma antica, capaci di simulare ad affresco mirabili decorazioni marmoree, fu Giotto, agli inizi del Trecento, a dare un rinnovato avvio all’imitazione dei marmi (non propriamente porfido, a dire il vero) come ancora vediamo nella cappella degli Scrovegni a Padova e in Santa Croce a Firenze. La sfida era quella che già Aristotele chiamava «mimesis». Ma si potrebbe capovolgere la questione: ci sono pietre, in natura, che hanno sfidato la mano del pittore, ricreando “naturalmente” fantasiosi disegni. Roger Caillois, collezionista di mirabili rocce “disegnate”, lo sapeva bene . (3) Gruppo dei tetrarchi (fine del III - inizi del IV secolo d.C.), Venezia, piazza San Marco, angolo esterno della basilica verso Palazzo ducale. Note Ivi, p. 231. (2) R. Caillois, Pierres, Parigi 1966. Cfr. Scritto nella pietra. Minerali (3) collezionati e descritti da Roger Caillois, Parma 2023, di cui qui parliamo a pagina 84.