I macchiaioli non stancano mai, con la loro solarità, il loro mare, la loro campagna, i loro interni umani e poetici. In questi ultimi anni è un vero pullulare di mostre, in ogni città del nostro paese. Eppure, ogni volta c’è qualche nuovo aspetto che emerge. Come nella ricca esposizione in corso a palazzo Martinengo di Brescia (fino al 9 giugno), a cura di Francesca Dini – che di quel movimento conosce ogni segreto – e di Davide Dotti. In dieci sezioni, e cento opere, quasi tutte di collezione privata, cui si aggiunge un bel gruppo di incisioni di Giovanni Fattori, viene ripercorso l’iter dei macchiaioli dagli inizi agli sviluppi novecenteschi, meno sondati, ma non meno affascinanti.
Tutto inizia intorno al 1855, al caffè Michelangiolo di Firenze.
In quel locale di via Larga (oggi via Cavour), un manipolo di artisti, che si definivano «progressisti» e furono chiamati con ironia «macchiaioli», cominciarono la loro rivoluzione. Insofferenti all’accademia, tesi verso la verità, la realtà, la natura, attenti a ciò che avveniva oltralpe, giungevano da diverse parti d’Italia, ma si sentivano toscani.
Sostenevano il nascente Stato italiano con le idee e la partecipazione personale. I nomi, noti: Fattori, Lega, Borrani, Cabianca, Signorini, Sernesi, Abbati e tanti altri.
Discutevano di arte, dipingevano, decisi a rappresentare il proprio tempo, quello di un’Europa fiduciosa nel progresso scientifico. Nasceva così il nuovo strumento espressivo, la Macchia, un’avanguardia artistica che vedeva la luce tra il 1855 e il 1867, superando il romanticismo e l’accademia e recuperando luce e colore. Tra le suggestive immagini che la mostra ci offre di questo primo momento ci sono quelle di un curioso acquerello di Adriano Cecioni con Il caffè Michelangiolo del 1866 circa e il Camposanto di Pisa del 1858- 1859, un olio su tavola di Vincenzo Cabianca, in cui colpi e ventate di luce sfaldano il battistero e i monumenti pisani.
La strada da seguire era quella della luce oltre che quella del colore. Un’apertura al “plein air”, che il livornese Serafino De Tivoli, già notevole paesaggista, cerca a Parigi, all’Esposizione universale del 1855, divenendo testimone delle esperienze dei pittori di Barbizon. Le diffonde nel gruppo del caffè Michelangiolo, dove vengono mescolate ai ricordi portati dal romano Nino Costa, uomo colto e patriota. Costa portava infatti in Toscana gli scenari luminosi della campagna romana, lasciati da Camille Corot. Nel piccolo Arno alle Cascine del 1860 circa di De Tivoli, le varie componenti culturali si uniscono nella preziosa tavola creando un tratto d’Arno con la sua riva terrosa, fatto di luce e colori pastello.