Cina: l’ineffabile
presenza del vuoto

Per la Cina le grandi arti sono: pittura, poesia, musica e calligrafia. Né architettura né scultura rientrano fra le arti maggiori, per la “pesantezza” della materia usata che non conosce il “vuoto”. Perché uno degli elementi più importanti della creazione estetica cinese è il “vuoto” (l’indelimitabile). Così un pittore può sfruttare il fondo grezzo del “supporto” serico per trarne effetti di spazialità atmosferica, lasciandolo “vuoto” di segni o, al massimo, rafforzandone l’effetto con leggerissime velature. Le immagini di Ku K’ai-chih (il più antico dei grandissimi pittori “noti” dalle opere pervenuteci, vissuto tra il 344 e il 406) nel rotolo degli Ammonimenti della istitutrice alle dame del palazzo si muovono appunto in un’atmosfera di sogno prodotta dal contrasto fra le figure e il fondo, che assume spessore e diviene avvolgente per l’incisività delle linee e dei colori. Lo spazio, indefinito, è creato dalle figure stesse, disposte come se fossero sospese nell’aria, ma in effetti appoggiate e “pesanti” su un piano di calpestio inesistente.

Siamo fra il IV e il V secolo d.C., e nulla di simile esiste in Occidente. Analogamente, è quasi inconcepibile, per il mondo occidentale, immaginare che di regola una pittura venga commentata e chiarita da una poesia (spesso di notevole valore letterario), scritta con elegante e personale grafia. La forza, l’eleganza, l’equilibrio armonico della scrittura possono trasmettere una vibrazione psichica altrimenti inafferrabile. Di qui il valore del tratto: non solo in calligrafia, ma anche in pittura. Del resto la poesia, sovrastante o scritta in margine, completava spesso il valore dell’opera attraverso lo straordinario multiforme codice del linguaggio calligrafico. Perdipiù le opere di maggior pregio, quelle che appartengono alla pittura “aulica” (la più tradizionale), erano destinate a una fruizione personalizzata concentratissima e lenta. II rotolo orizzontale (“e-makimono”) deve esser svolto e gustato con lentezza, mentre viene riavvolto con l’altra mano, per non perdere neppure i minimi particolari. I rotoli verticali (i “kakemono”) invece venivano esposti per breve tempo in un ambiente isolato e senza distrazioni. In ambedue i casi il “lettore” (la parola qui è appropriatissima) esaminava l’opera abbandonandosi al proprio stato d’animo di fondo e “ascoltando” le pulsioni suscitate dall’artista attraverso il primo dei sei princìpi definiti da Hsieh Ho alla fine del V secolo d.C. nel suo famoso trattato sulla classificazione dei pittori (Ke Hua P’in Lu). Condensati (ognuno in soli quattro ideogrammi), i sei princìpi non sono facilmente interpretabili; soprattutto il primo, che, a dispetto delle interminabili discussioni, in sostanza prescrive al pittore di cogliere il flusso della vita circostante attraverso una particolare sintonia col proprio spirito (o forse con il proprio flusso vitale).


Ku K’ai-chih (345-406 circa), Ammonimenti della istitutrice alle dame del palazzo (copia dell’VIII secolo d.C.), particolare; Londra, British Museum. Quello degli Ammonimenti è il più antico rotolo conosciuto nella pittura cinese. L’attribuzione a Ku K’ai-chih risale al XII secolo.