Oltre al fondamentale interesse per l’arte giapponese, sempre nella prima metà dell’Ottocento nasce – per ragioni diverse – una corrente particolare che è chiamata degli “orientalisti”, la quale avrà echi attenuati e smorti anche nei primi decenni del secolo scorso. È una corrente che sceglie volentieri, come soggetto pittorico, aspetti di vita, scene, personaggi e tipi del mondo musulmano, soprattutto mediterraneo. Non ha perciò implicazioni teoriche, iconografiche o stilistiche derivate dall’Oriente, ma si compiace dell’esotismo coloratissimo di culture lucenti di sole, in insolite scene di genere o in composizioni immaginarie cariche di vivacità, che attraggono il pittore, oltre che per il fasto dei colori e per la novità dei personaggi, anche per la maggiore libertà di fantasticare e di esprimersi resa possibile dal soggetto “orientale”. Questa corrente è particolarmente sentita in Francia, ove il più famoso degli orientalisti in quanto tali è Eugène Fromentin. Ma la corrente annovera nomi ben più noti, come Delacroix, Théodore Chassériau, Doré, Ingres e Moreau. Quest’ultimo, nella Danza di Salomè, pone come sfondo alla danzatrice un tempio indiano, verosimilmente per l’imponenza e la “novità” della costruzione (arbitrariamente trasferita in ambiente biblico), ma anche perché le forme indiane suscitavano in lui (come del resto in Victor Hugo) una sensazione di tetra incomprensibilità connessa con la morte. L’interesse italiano per la corrente “orientalista” è invece ridotto, sia per le vicende interne della nostra cultura, sia perché il nostro mondo era ed è altrettanto colorito e luminoso quanto quello islamico dell’Africa settentrionale. Il che non toglie che, cominciando da Alberto Pasini (1826-1899) detto “il Fromentin italiano”, un buon numero di nostri pittori si sia interessato all’“orientalismo”. Fra questi, Stefano Ussi (1822-1901) e Fabio Fabbi (1871-1946) furono ambedue pittori ufficiali del kedivé d’Egitto.