L’idea della Collezione Imago Mundi corrisponde al desiderio di creare un’immagine corale del mondo, un’eterotopia degli immaginari contemporanei senza distinzione fra artisti esordienti o affermati. Il progetto Imago Mundi inizia nel 2006 quando un collezionista, andando a conoscere uno studio d’artista, riceve invece di un biglietto da visita una piccola tela di dieci per dodici centimetri. Il collezionista era Luciano Benetton. Da quel momento, il progetto iniziale della raccolta gradualmente si evolve fino a dar vita, nel 2018, alla Fondazione Imago Mundi con sede espositiva alle Gallerie delle Prigioni, in piazza Duomo a Treviso.
Attualmente negli spazi della Fondazione è in corso fino al 30 giugno Out of Place. Arte e storie dai campi rifugiati nel mondo volta a georeferenziare i lavori di oltre centocinquanta artisti che vivono o hanno vissuto nei campi per rifugiati di tutto il mondo. Una collezione-mostra a cura di Claudio Scorretti, Irina Ungureanu e Aman Mojadidi. Un'operazione semplice e potente dove troviamo il racconto di artisti rifugiati o sfollati, insieme con il racconto di chi è riuscito a diventare migrante. All’ultimo piano si dispiega Il labirinto, installazione composta da una serie di ritratti, del fotografo Mohamed Keita, accompagnati dalle interviste ai soggetti a cura del giornalista Luca Attanasio. L'iconografia delle opere in mostra rivela una persistenza di temi, esperienze, desolazioni e consolazioni narrate da chi ha vissuto luoghi confinati sperimentando una sospensione dei propri diritti di cittadinanza.
Se questa fosse una condizione volontaria e scelta, sarebbe una declinazione mistica del puro essere, una forma estrema di resistenza al potere, al suo grado massimo di annientamento, attitudine raccontata da Etty Hillesum (giovane ebrea olandese vittima dell’Olocausto) nei suoi diari e nelle lettere da Auschwitz. Ma se questa condizione viene imposta in modo asimmetrico per arginare fenomeni migratori dovuti a conflitti, sia all’interno di un singolo paese che fra paesi diversi, allora l’estraniazione diventa violenza, riduzione biopolitica alla «nuda vita», per dirla con le parole del filosofo Giorgio Agamben contenute in Homo Sacer.
Se per ogni campo esiste un conflitto, possiamo contemplare un atlante urbano dei conflitti globali più rilevanti.
I campi sono delle vere e proprie città per l’estensione nel tempo e nello spazio e per la densità di popolazione. In questo contesto, dunque, Out of Place (Fuori posto), titolo mutuato da un omonimo libro di Edward Said, lo diventiamo anche noi nelle nostre città. Il campo parla di noi, qui e ora.
Il dispositivo narrativo della mostra usa gli ambienti dei tre piani delle Gallerie delle Prigioni per presentare i campi dei diversi paesi. All’inizio, le opere di artisti provenienti dai campi più grandi per estensione e popolazione: Kutupalong, in Bangladesh, luogo di rifugio di una minoranza islamica in fuga dal Myanmar, i Rohingya, in conflitto con la maggioranza buddista del paese. Kutupalong è grande come milletrecento campi da calcio, occupati da seicentomila persone. Per immaginare la densità, bisognerebbe pensare a una partita con due squadre di duecentotrenta giocatori ciascuna, per ognuno dei milletrecento campi. Le milletrecento partite si giocherebbero ininterrotte dal 1991. Si può continuare il gioco di trasformare in campi da calcio e in durata in partite tutti gli altri campi in Kenya, Uganda, Etiopia, Burundi, Somalia, Costa d’Avorio e Sudan, raccontati in cifre e poi attraverso le opere nei successivi livelli delle Prigioni. Seguono le sale dedicate al conflitto in Afghanistan, con le descrizioni dei flussi migratori generati dall’abbandono del territorio da parte degli Stati Uniti, e quelle dedicate ai campi in Giordania. Non manca il campo di Nyabiheke in Burundi, ai confini col Ruanda; quello di Dzaleka in Malawi; quello di Smara in Algeria; i corridoi di migrazione delle Americhe centrali e del Sud fino ad arrivare ai lavori realizzati da rifugiati ucraini.
Un’opera racconta con grande forza l’estraniamento, l’installazione multimediale di Rushdi Anwar, Reframe “Home” with Pattern of Displacement, costituita da un tappeto ritagliato, in cui è impossibile, anche se si volesse, sedersi per vedere un video di venti minuti che documenta la vita dei campi del Kurdistan iracheno durante una residenza del 2016. In questo tappeto, le parti mancanti sono riportate ai lati o ai bordi, un po’ più consunte o come bruciate, alcune non riescono più a ricomporsi e lasciano lacune nella forma del tappeto. Esse sono la cifra del vivere fuori luogo, anche a casa, in se stessi, sulla soglia fra creazione e distruzione di mondi. Queste lacune misurano la nostalgia di una mancanza.