Oggetto misterioso Il cuore creolo della Martinica Gloria Fossi NELL’ISOLA CARAIBICA DELLA MARTINICA, FRA LE PIETRE ANNERITE DELL’ANTICA CAPITALE DI SAINT-PIERRE, DISTRUTTA DALL’ERUZIONE DEL VULCANO NEL 1902, IL PROGETTO SITE SPECIFIC DI UN’ARTISTA ARGENTINA RIANNODA I FILI DELLA MEMORIA CREOLA. ulla costa nord-occidentale della Martinica cammino senza meta nelle assolate stradine di Saint-Pierre, cittadina che oggi conta circa cinquemila abitanti. Adagiata sulla costa di sabbia scura, dove i pochi pescatori rimasti tirano le reti su piccole barche di legno dipinto di rosso e di blu, l’amabile Saint-Pierre è dominata da un vulcano sonnolento ma ancora attivo. S Alla sommità della Pelée, come qui chiamano il vulcano alto 1397 metri, staziona sempre qualche nuvoletta. Sul mare, all’orizzonte, appare spesso, dopo le piogge, un poetico, doppio arcobaleno. A circa un’ora di auto dai giganteschi centri commerciali e dalle strade trafficate attorno a Fort-de-France, attuale capitale della Martinica, lontano dalle spiagge paradisiache del Sud affollate di turisti, Saint-Pierre sembra un altro mondo. Forse per poco, come mi dicono al mercato di ferro all’aperto dove si balla al suono di un’orchestrina creola, tra bancarelle di frutta tropicale e bottiglie di rum. Da qualche mese, una volta la settimana, una immensa nave da crociera sbarca centinaia di turisti attratti dal vulcano. Non so quanta ricchezza le crociere portino alla popolazione creola (i “pierrotins”) perché i negozietti, aperti solo il giorno dello sbarco sono tenuti da occidentali, un tempo chiamati Saint-Pierrais. So solo che quelle crociere hanno allontanato la scuolina di nuoto per i bimbi di Saint-Pierre, e reso sempre più difficoltosa l’attività dei pescatori. E ignoro quanti crocieristi si accorgano di alcune bellissime installazioni che fanno capolino fra le rovine delle case distrutte oltre un secolo fa dalla devastante azione del vulcano. Era l’8 maggio del 1902 quando alle 7.50 del mattino, in poco più di un minuto, l’incandescente pioggia piroclastica distrusse interamente la città, con il suo straordinario teatro, che faceva invidia a quelli europei, il Palazzo della borsa, il mercato coperto, la chiesa, le case dei coloni. Fu una delle più rovinose eruzioni della storia. Su trentamila persone, si salvarono in quattro. Poi la città fu ricostruita, ma senza le pretese di un tempo. Restano, qua e là, le rovine della vecchia cittadina. Solo qualche muro, ma quanto basta per rivivere la memoria creola. Nella stretta rue Bouille alle spalle della spiaggia di sabbia nera, per esempio, ci si trova all’improvviso di fronte alla facciata di un vecchio edificio. Dietro la facciata, il niente. Le scritte sbiadite indicano che questo era uno spaccio di alimentari, all’ingrosso e al dettaglio, e un deposito del rinomato rum invecchiato. Se souvenir (2014), installazione fotografica di Anabell Guerrero. Isola della Martinica Saint-Pierre, rue Bouille. Donna creola (inizi del XX secolo), particolare di Se souvenir. Rovine dell’Habitation de l’Anse Latouche, la più antica piantagione di canna da zucchero della Martinica, fondata nel 1643 e distrutta dal vulcano, qui a destra, nel 1902. COEUR CREOLE, cuore creolo, si chiamava il magazzino. Fra le finestre sventrate, un’artista argentina, Anabell Guerrero, ha inserito nel 2014 alcune immagini in bianco e nero, ingrandite da fotografie tratte da vecchi album di famiglie creole. In questa suggestiva installazione, fra la vegetazione tropicale che sembra appropriarsi delle pietre bruciacchiate, alcune donne si ergono, orgogliose della loro bellezza e dei loro inconfondibili costumi. Al centro, una coppia di sposini. Sono i “pierrotins”, che Guerrero ha fatto rivivere dalle ceneri del vulcano. Anche se non è di cuore creolo, l’artista sudamericana lavora da tempo, in tutto il mondo, con fotografie, installazioni e sculture, sui temi di emigrazione, diaspora, schiavitù, razzismo. Saint-Pierre era la capitale della Martinica, e uno dei più floridi porti commerciali dei Caraibi. Per oltre due secoli, fino al 1902, fu il centro coloniale più rinomato e vivace delle Antille francofone (Martinica, Guadalupa, Haiti). Qui avevano vissuto, fino al 1635, gli indigeni caribe, sterminati nel corso di un secolo dai conquistatori occidentali. Via via i caribe furono soppiantati da uomini, donne e bambini africani trasportati in modo disumano lungo la tratta degli schiavi: una tragica via senza ritorno che partiva dal golfo di Guinea, sulla costa occidentale africana, per giungere nelle isole dei Caraibi. La storia rammenta innumerevoli naufragi di schiavi, ammassati e incatenati nelle stive, che perirono in condizioni drammatiche. Chi arrivava vivo veniva impiegato nelle piantagioni. In Martinica vivevano nelle capanne, le cosiddette “case à nègres” dove aveva abitato anche Gauguin, nei quattro mesi del suo soggiorno in Martinica, nel 1887. Le condizioni erano disagiate, ma pur sempre meno drammatiche rispetto ai tuguri assolati di pietra infuocata dove lavoravano gli schiavi delle saline della minuscola isola di Bonaire, nelle Antille olandesi. Saint-Pierre era abitata da oltre ventimila persone, fra schiavi e coloni bianchi, questi ultimi divenuti ricchi grazie alle distillerie, alla coltivazione e al commercio di caffè, cacao e canna da zucchero. E grazie agli schiavi. Creoli. Si pensa che la lingua creola si sia formata, nelle sue varie declinazioni, lungo la tratta degli schiavi che parlavano lingue diverse, e così impararono a capirsi fra loro, fra quelli, cioè, che partivano da Mauritius e Rodrigues nell’Oceano indiano, di lingua olandese, inglese e francese, fra quelli del Mozambico e dell’Angola, di dominio portoghese, fino alle isole di Capoverde, São Tomé e Principe anch’esse di origine lusitana. Così nacque la “creolité” della quale parlano le fotografie sulle pietre sbrecciate di Saint-Pierre. Da vicino vedo che quelle immagini si stanno deteriorando, il supporto fotografico si è increspato e fra qualche tempo saranno perdute, altre sono già andate perse, inserite non lontano da qui, fra vecchi muri mangiati dalle piante. D’altra parte il progetto ha valutato, sin dall’inizio, la possibilità che queste installazioni effimere fossero destinate a rovinare o scomparire del tutto. Quello che non scompare è il cuore creolo. Non a caso nel 1989 i tre principali esponenti della letteratura martinicana contemporanea – Jean Bernabé (1947-2017), Patrick Chamoiseau (1953), Raphaël Confiant (1951), autori di bellissimi romanzi noti anche in Italia – hanno divulgato l’«elogio della creolità» , un manifesto programmatico della loro autonomia culturale. «Non siamo europei, né africani né asiatici. Ci dichiariamo creoli». Questa è la loro rivendicazione, che fa seguito al movimento Négritude, fondato a Parigi nel 1939 da un altro martinicano, Aimé Césaire, che il surrealista André Breton conobbe quasi per caso in Martinica, nel 1941 . Saint-Pierre è rinata dalla cenere, la creolità non è mai morta, si era solo sopita. Ed è bello tornare da un viaggio ricchi non di cose, ma di diversità, quella diversità che dà un senso anche all’essere partiti, per parafrasare il filosofo Michel Onfray, che la Martinica la conosce bene . (1) (2) (3) Note J. Bernabé, P. Chamoiseau, R. Confiant, Éloge de la créolité, Parigi 1989 (ed. it., Elogio della creolità, a cura di D. Main, E. Salvadori, Como 1999). (1) A. Breton, Martinique, charmeuse de serpents, Parigi 1948. (2) M. Onfray, Théorie du voyage. Poétique de la géographie, Parigi 2007 (ed. it., Filosofia del viaggio. Poetica della geografia, Milano 2010). Id., Au pied du volcan. Poèmes pierottins, Parigi 2015 (inedito in Italia). (3) Le Carbet, isola della Martinica, costa nordoccidentale.