Per evitare il rischio di fascinazione macabro-voyeuristica, Richter rielabora pesantemente le fotografie, sfocandole moltissimo, sia mentre esegue i dipinti, sia quando, tempo dopo, decide di inserire le foto dei Baader-Meinhof in Atlas (cfr. tavv. 470-479). Non sono però gli scatti che ha scelto come modelli per i dipinti, bensì un centinaio di altre fotografie d’archivio, tra cui quelle della polizia, che aveva inizialmente raccolto in un album a parte. Come scrive Didi-Huberman in un altro suo saggio, apparso in italiano nel 2010 e dedicato ad Harun Farocki (per l’autore l’esempio massimo di artista-regista impegnato che si pone di fronte alla storia recuperando e montando documenti fotografici dell’Olocausto), «rendere un’immagine», vale a dire restituirla alla sfera pubblica nella maniera corretta, sottraendo l’autorialità di chi opera e risvegliando la coscienza di chi guarda, è un atto primariamente etico. Soprattutto, quando le immagini riemergono dagli archivi come testimonianze dimenticate, censurate, mute, oppure, come in questo caso, travisate dalla spettacolarizzazione operata dai media. Tote (Morta) (1988); New York, Museum of Modern Art.