A distanza di cinquantacinque anni, la casa editrice Il Saggiatore ripubblica un caposaldo, non solo tra i libri fotografici, ma anche nell’immaginario visivo di critica sociale e politica costituitosi negli anni Settanta in Italia, Morire di classe. Originariamente edito da Einaudi, nel 1969, con le fotografie di Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin, il libro, fortemente voluto e curato da Franco Basaglia e sua moglie, Franca Ongaro, nacque come bandiera visiva di quel movimento antipsichiatrico che portò alla chiusura dei manicomi e alla legge 180 del 1978. Costola di quella narrazione un altro libro, recentemente pubblicato da Mimesis, La classe è morta di Carla Cerati, in cui a mostrarsi sono immagini inedite (non presenti in Morire di classe) della fotografa che fece della questione sociale la sua espressione.
Per raccontare la genesi di Morire di classe mi sono servita delle parole che Carla Cerati mi regalò nel 2008, in occasione della mia tesi di ricerca sulla fotografia psichiatrica; per illustrarne, invece, la sua lettura contemporanea, anche in virtù della rinnovata pubblicazione, per presentare il nuovo libro e per omaggiare il centenario della nascita di Franco Basaglia mi sono rivolta alle parole, offertemi ai giorni nostri, di Elena Ceratti, figlia di Carla.
Milano, martedì 30 settembre 2008.
Come ha, originariamente, preso forma Morire di classe?
Avevo visto una mostra di Richard Avedon a Palazzo reale, a Milano. Tra le immagini esposte anche quelle che ritraevano un ospedale psichiatrico in America, l’East Louisiana State Hospital di Jackson. Ne rimasi particolarmente colpita, così quando Basaglia cominciò a portare luce sulla questione della deistituzionalizzazione degli ospedali psichiatrici ho subito colto la possibilità di contattarlo tramite la casa editrice Einaudi, dove lavorava mio marito. Incontrandolo, gli esposi la mia idea di fotografare all’interno degli ospedali psichiatrici in Italia, lui l’abbracciò con molta gioia. A quel punto, presa, forse, da un attacco di timore, ho chiesto a Gianni Berengo Gardin di venire con me e partecipare al progetto. Producemmo le foto in sei mesi, con l’aiuto di Basaglia che ci faceva strada. Abbiamo cominciato con l’ospedale psichiatrico di Gorizia, poi Parma, dove [gli operatori], rendendosi conto del lavoro che stavamo facendo, ci chiesero di consegnare i rullini, ma grazie alla furbizia di Berengo siamo riusciti a portarli via con noi, lasciando a loro dei rullini ancora vergini. Infine, a Firenze, l’esperienza forse più terrificante: nel “reparto schizofrenici” facevano mettere la camicia di forza con sopra un sacco di iuta, le braccia risultavano, così, imprigionate, non avevano biancheria intima, solo pennellate di mercurocromo e piedi nudi.