«Sono nato in Unione Sovietica e ho creduto sinceramente nelle idee e negli ideali di quei tempi. Oggi sono considerati un errore storico. Ora la Russia ha un sistema sociale direttamente opposto a quello in cui io, come artista, sono cresciuto. L’accettazione di un Premio di Stato sarebbe quindi per me uguale a una confessione dell’ipocrisia vissuta durante tutta la mia carriera artistica. Chiedo che voi possiate accogliere il mio rifiuto con la dovuta comprensione». Questo è ciò che Gelij Koržev, uno dei pilastri dell’arte sovietica postbellica, forse il maggior esponente del realismo socialista, scrisse in una lettera aperta per rifiutare un importante riconoscimento pubblico. La sparizione dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, il crollo del regime e di tutto quello in cui aveva creduto lo aveva infatti spinto ad abbandonare progressivamente “il reale” per raccontare un mondo pericoloso e “irreale” nel quale aveva finito per non riconoscersi più. Lo popola di figure allegoriche che ci appaiono “mostri”, come li avrebbe chiamati Goya, rappresentazioni di una realtà deformata dal disagio, dal conformismo e dall’alienazione. Esseri grotteschi e disturbanti, che riflettono la crisi di una società che aveva promesso utopie e consegnato disillusioni, che aveva “cambiato pelle”, rinunciando ai propri ideali. Il suo stile assume connotazioni espressioniste, con un uso audace del colore e una tecnica che sconfina nell’astrazione, offrendo una visione feroce della nuova Russia. Incredibile che sia lo stesso autore di alcune delle opere più straordinarie della cultura sovietica del dopoguerra, uno dei più ferventi e convincenti interpreti di uno stile che voleva celebrare la forza del popolo sovietico, la sua resistenza, l’impegno ideologico che avrebbe un giorno permesso di cambiare il mondo. Privata del diritto genitoriale (2006).