Dei luoghi comuni e fraintendimenti – non pochi – che circolano sulla vita e sull’opera di Paul Gauguin i più duri da smantellare riguardano i dipinti polinesiani, che poi sono quelli che hanno reso noto al mondo intero l’artista francese, nato a Parigi nel 1848 e morto alle isole Marchesi nel 1903. Sono oltre duecento, senza considerare le sculture, i disegni e qualche incisione, da lui realizzati fra Tahiti, allora colonia francese d’oltremare, fra 1891 e 1893, e di nuovo fra 1895 e 1899 (dopo un disastroso ritorno in Francia), e poi nelle isole Marchesi, dal 1899 sino alla morte, avvenuta l’8 maggio del 1903 per gravi malattie che si trascinava da anni. Strazianti le ultime lettere inviate dalle Marchesi al fedele amico pittore George-Daniel de Monfreid a Corneilla-de-Conflent, sui Pirenei orientali francesi. Le tele che Gauguin gli inviava arrivavano arrotolate alla stazione ferroviaria che si trova come incastrata fra le montagne, non distante dal castello di Saint-Clement, ancora oggi suggestiva dimora dei Monfreid, immersa nel verde dei Pirenei, quasi a strapiombo sul niente. Non fa eccezione la tela oggi a Edimburgo, che arrivò nel 1900 con sei mesi di ritardo, come testimonia la corrispondenza fra Gauguin e Monfreid, perché il colono cui il pittore l’aveva affidata a Tahiti aveva sbagliato indirizzo . Ma piacque immediatamente e l’amico la vendette a Gustave Fayet, che assieme a Edgar Degas è stato il più precoce ed entusiasta collezionista di Gauguin. Da allora fu esposta decine di volte, in Francia e anche a Londra (dove non piacque a John Singer Sargent), e in generale il consenso fu caloroso: una genuina interpretazione occidentalizzata, quasi in chiave grecizzante, dell’esotico, erotico mondo polinesiano, si disse. La tela di Gauguin si trova dal 1960 alla National Gallery of Scotland di Edimburgo e tuttora il sito del museo e tutti i critici ripetono la tradizionale interpretazione. È ben nota la predisposizione di Gauguin a interpretare il fascino senza tempo della gente di Tahiti e delle Marchesi combinando elementi tratti dalla cultura occidentale, ed è probabile che nella giovane donna vestita col peplo avesse in mente anche qualche modello occidentale, ma il giovane uomo è esistito davvero, e nessuno ne parla. Era però splendidamente tatuato, e viveva alle Samoa, che non facevano parte delle colonie francesi. Lo ritroviamo in una fotografia che Gauguin doveva possedere (ne circolavano molte, a Tahiti, e si vendevano bene fra i turisti europei e americani). Era stata scattata a Samoa dal fotografo Thomas Andrew. Gauguin, anziché dipingere dal vero, spesso a Tahiti fece uso di immagini di fotografi occidentali alle Samoa, e qui ne eliminò i tatuaggi. Non esiste un solo suo dipinto con figure umane tatuate, perché i missionari cattolici li avevano proibiti, e forse anche perché non avrebbe incontrato il favore degli europei. Aveva ragione Susan Sontag a ritenere che quando si viaggia nei luoghi dell’altrove, la distinzione fra “il noi” e “il loro” è netta. Il “nostro” sguardo, intendeva la scrittrice, e quello “loro” . E pensare che il tatuaggio oggi tanto diffuso da “noi”, viene proprio da “loro”. (2) (3) Lettres de Paul Gauguin à Georges-Daniel de Monfreid précédées d’un hommage par Victor Segalen, Parigi 1918, ed. it. Cherso 1918, nn. LXV, LXVI, LXVIII. S. Sontag, Question of Travel (1984), in When the Stress Falls, New York 2001, pp. 274-284. (2) (3) (Giunti, in libreria da ottobre 2024) è il nuovo volume di Gloria Fossi, che dal 2006 a oggi ha ripercorso l’intero cammino dell’artista francese: da Parigi a Copenaghen alla Normandia, da Londra alla Bretagna, dalla Provenza in Martinica, sino alla Polinesia francese. Il sorprendente confronto fra le opere di Gauguin e le fotografie scattate dall’autrice in tutto il mondo si affianca a una documentazione storico-critica aggiornata, con osservazioni inedite scaturite dalle sue ricerche sul campo. Sulle tracce di Gauguin