CAMERA CON VISTA

PARADŽANOV ARABESCHI ARMENI

Luca Antoccia

Perché celebrare i cento anni dalla nascita di Sergej Paradžanov (1924-1990) e i trentaquattro dalla sua morte se è un regista che a malapena ricordano gli amanti del cinema? Eppure, a fianco a una storia del cinema giustamente fatta di premi, scuole e influenze, per fortuna c’è una storia di quelli che hanno tracciato direzioni inusuali e irripetibili.
Irripetibile il cinema di questo georgiano-armeno cresciuto in Ucraina lo è soprattutto sotto l’aspetto figurativo-pittorico, motivo per cui Marina Abramovic´ lo considera il massimo riferimento cinematografico, e motivo per cui un omaggio qui gli è dovuto. Molto suo cinema può sembrare oggi una sorta di installazione: la frontalità esibita, la scarsa profondità di campo, la messa in scena di oggetti, animali, esseri umani intrecciati da una profonda complicità, immersi nel silenzio, nell’ immobilità e nel colore. Tutti i suoi film maggiori sono presenti su YouTube e non importa se in versione inglese: storie e parole recitano un ruolo secondario. Si può partire da La leggenda della fortezza di Suram (1984) che sintetizza e porta a maturazione tutto il suo cinema (stilizzazione, ieraticità, pathos) e che narra la storia di una fortezza nel Caucaso non edificabile senza il sacrificio di un giovane disposto a farsi murare vivo. Sceneggiato da Tonino Guerra, altro poeta del cinema, è il solo film che ha avuto qualche visibilità nelle sale.
Capolavoro indiscusso è Il colore del melograno (1969) sul poeta-musicista armeno Sayat Nova (pseudonimo di Harutyun Sayatyan), dove straripa la sfrontata bellezza del colore. Se a questo punto ci si sarà appassionati si può andare avanti, o indietro, a esplorare il film da cui nasce questo splendore: L’ombra degli avi dimenticati (1964), in cui dimensione fiabesca ed etnologica sono in equilibrio, riflesso di una più profonda sintesi tra documentarismo e finzione. Oppure si può saltare all’opera ultima, Asik Kerib - Storia di un ashug innamorato (1988), rapsodia di un cantore errante (“ashug”) nelle pianure tra Europa e Asia, davvero il suo canto del cigno. Senza scordare il corto Arabeschi sul tema Pirosmani (1985), grande pittore georgiano primitivista. Il cinema di Paradžanov ha scarsi predecessori (forse il Pasolini del Fiore delle mille e una notte) e pochi eredi (I lautari del moldavo Emil Loteanu è il solo che ci si avvicina); forse perché la sua arte cattura il “milieu” di una cultura unica, sospesa tra quattro enormi tradizioni: persiana, turca, armena e russa. Inevitabile che il suo lavoro sia stato osteggiato dalle autorità sovietiche (imprigionato tre anni con accuse di omosessualità e traffico di icone) e sostenuto dall’amico Andrej Tarkovskij. Oggi in compenso a Erevan, in Armenia, dove è morto nel luglio del 1990, un museo intero è dedicato al suo nome e alla sua opera.

Un frame da Il colore del melograno (1969), di Sergej Paradžanov.
Un frame da Il colore del melograno (1969), di Sergej Paradžanov.