Moderno vuol dire moltissime cose. Gio Ponti è moderno perché è artista, intuisce quello che l’epoca pensa, quello che sta per nascere e lo diffonde. Può dire, come Picasso: «Io non cerco, trovo». È, infatti, l’intuito che trova.
Ponti è un poeta della visione. Lascia entrare, come in un cristallo, la luce dentro di sé e la restituisce. È un poeta in cemento armato, cioè un architetto, ma un architetto non ortodosso. Nei suoi colleghi più amati, Le Corbusier, Niemeyer, Alvar Aalto, ammira quella ortodossia che egli non possiede. «Un nativo complesso di inferiorità mi ha sempre accompagnato per tutta la vita», confessa, con una sincerità sconcertante. «Gio Ponti è a trecentonovanta gradi», dice l’artista designer Nanda Vigo, trenta più degli altri. Quasi tutti gli architetti rappresentano se stessi, lui no; è un ladro di idee, come Picasso, entrambi rei confessi. Mentre tutti sono alla ricerca di una cifra personale, Gio Ponti è al servizio dell’architettura. Come lui stesso racconta, quando ha assistito alla Scala alle prove di un grande direttore di orchestra che suggeriva ai suoi musicisti di suonare senza espressione, come se volesse eseguire lo spartito musicale senza ansia interpretativa, senza desiderio di originalità forzata, ne è rimasto conquistato. Analogamente, egli si lascia guidare dalla melodia dell’architettura e dell’arte, cercando di intervenire il meno possibile. Quella che Mario Botta ricorda come la sua «innata eleganza» lo preserva dalle stonature.
Ponti è diverso dagli altri architetti. In lui l’architettura sgorga spontanea come la lava da un vulcano. Se fosse vetro non sarebbe quello fatto dall’uomo, bensì quell’ossidiana lavica, cioè quel vetro naturale che si autogenera. L’architettura di Gio Ponti è innata, spontanea e inarrestabile.
La sua giornata, dicevano i suoi amici, è di “sessanta ore”. Dalle 5 alle 6 di mattina scrive agli amici, dalle 7 alle 20 è nello studio di via Dezza. Di notte veglia nella casa dormiente con le luci accese. Al mattino il letto è coperto di disegni di architettura e i suoi soci vengono a sapere che il progetto è stato cambiato. Trascorrono così sessant’anni di lavoro, «senza tregua, senza fatica, senza sforzo, anche con momenti di solitudine, come avviene agli artisti»(1). Il suo lavoro non ha confini. Non c’è soltanto l’architettura, ma porcellane, ceramiche, argenti, smalti, vetri, tessuti, legno: tutti i materiali dell’arte applicata passano dalle sue mani. Ogni tanto in una generazione emergono singoli individui che, da soli, pongono in atto un profondo e ingenuo sforzo di cambiare la storia. La loro azione non si traduce in un manifesto politico, ma ha un’influenza decisiva sulla cultura del loro paese. Gio Ponti è uno di questi.
Dicono alcuni che nel genio c’è un bambino molto piccolo e un uomo molto grande.
Questa osservazione in qualche modo lo riguarda: bambino, con gli occhi e la bocca spalancata di fronte alla vita per guardarla e divorarla, eterno scolaro, stupito e riconoscente, indagatore delle scoperte altrui; uomo, che fa nascere una sua forma dall’esperienza della forma, che organizza, incoraggia, elabora, propone e insegna.
«Io detesto le discriminazioni tecniche, i problemi a sé, per soli competenti. Io voglio un’altra cosa, voglio la civiltà, che è conoscenza aperta e diffusa, da parte di tutti, di tutti i nostri problemi»(2).