Gode di una eccessiva protezione da parte dei genitori ed è amorosamente “costretto”, nei primi due anni delle elementari, a frequentare una scuola per sole bambine. Sogna di diventare pittore. Ci sono disegni bellissimi della sua prima adolescenza.
Come gallerista, ne ho avuto fra le mani uno stupendo: una barca a vela dipinta a nove anni firmato Gino. Prima di venderlo, non l’ho fotografato ma, fortunatamente, mi resta un rarissimo profilo di cavallo a matite colorate firmato: «Gino 1900 anni otto e 1/3».
Il futurismo, in piena fioritura nella città meneghina nei primi anni del Novecento, lascia “Gino”, che nel frattempo è diventato Gio, indifferente. Egli assiste con gentile distacco alle serate di Filippo Tommaso Marinetti al Dal Verme a Milano, contempla con incertezza le forme nuove di quell’arte, mentre è sempre più coinvolto nel suo personale sogno pittorico. Poi il sogno diventa vocazione, mai completamente adempiuta e per sempre oggetto di nostalgia.
«Sono un pittore mancato, diceva con velata ironia, un architetto fallito, perché la mia vocazione era dipingere»(3). A sostituire in gran parte la pittura è rimasto il disegno. «I disegni sono vicini ai segreti degli artisti», scrive(4).
Una corrente impetuosa di segni irrompe quindi nella sua professione e nella sua vita, a documentare la diversità dei suoi percorsi, dalle suggestioni beardsleyiane delle prime illustrazioni per “Emporium” e per due testi di Oscar Wilde (La cortigiana e la Ballata del carcere di Reading), alle composizioni neoclassiche per la ceramica, agli schizzi per l’architettura e il design, dove l’unità di misura è l’occhio. «Disegnare prima, misurare poi», raccomanda(5).