e un autoritratto come Testa d’uomo, 1963, sembra rimandare a un “oltre metafisico”.
Freud non si ferma mai alla superficie delle cose e delle persone, cerca di catturare nell’“apparenza” quello che questa nasconde, ma l’apparenza, come ha detto Bacon, «si fissa per un solo attimo», ed è in quell’attimo che l’immagine diviene reale. In Testa d’uomo è la mano destra, su cui si appoggia il volto, che sembra conficcarsi nello zigomo che allude a un “oltre” dietro all’apparenza dell’effigie. In una tradizione, quella anglosassone e americana, in cui la pittura era considerata l’illustrazione del “bello”, le opere di Freud si conficcano come un coltello e anche se non aprono ferite e lacerazioni profonde nell’“immagine della realtà” - come invece faceva Bacon -, costituiscono tuttavia pur sempre una violazione, mossa da un punto di vista che può evocare l’angoscia. Tra gli scrittori angloamericani dell’Ottocento, tutti cultori del bello apparente, solo Henry James aveva avvertito quanto può essere inquietante un’immagine al di là delle apparenze.
I dipinti di Freud non possono certo essere apparentati a delle “ghost stories”, e tuttavia dietro la loro fisicità corposa, quasi invadente, pare celarsi un “oltre” che non è della materia e della carne. È difficile, nell’arte moderna, trovare un altro pittore capace di unire a un senso cosi profondo della presenza fisica delle persone un’analisi cosi dettagliata della carne e del corpo, un’urgenza altrettanto parossistica di esprimere la condizione interiore, la “ferita segreta”, che porta in sé ogni essere umano. Le figure che appaiono negli interni di Freud sono sole, mute e guardano sovente un punto che non è il pittore, e quindi l’osservatore, né l’altro.

