si accampa nell’opera di Burne-Jones un linguaggio sempre più astratto e simbolico. L’Italia diviene paese della memoria, l’artista non vi tornerà più, nemmeno in occasione dell’esecuzione dei mosaici per la chiesa di San Paolo a Roma.
Lo stile sapiente, ora sovraccarico, ora rarefatto, si rifugia nell’addensamento o nella sottrazione. Pensiamo al paradigma di grazia e ossessione delle immagini degli angeli rappresentati nei Giorni della Creazione o alla spettralità delle Sirene, che aprono sul vuoto di un catatonico enigma.
Il ciclo della Rosa selvatica e il ciclo di Perseo - il bosco al di qua del mondo e il pozzo alla fine del mondo - sono entrambi metafore di un nodo di linguaggio, e non solo, sia personale sia storico.
Il primo è squisito schema ricamato, spesso accordato su note cromatiche alte, dove ogni forma è magicamente ridotta al silenzio e all’inerzia, mentre la sola realtà eretta è quella del principe posto al margine esterno della composizione, come se non fosse in grado di penetrare l’intrico che gli si oppone.
