IL “MUSEO”DELL’OCEANIA

Nelle lingue del Pacifico non esiste un vocabolo che corrisponda alla nostra parola “arte”.
L’espressione hawaiana più vicina è hana no’eau.

Hana significa attività, no’eau intelligenza, abilità, e in senso lato possiamo intenderla come attività artistica. In effetti tutta l’“arte” oceanica risponde all’idea di eccellenza, squisita perfezione. Per gli artisti del Pacifico, rimasti in gran parte anonimi, il “fare arte” doveva voler dire, in primo luogo, creare al massimo livello qualitativo qualsiasi oggetto: statuette antropomorfe, maschere, giganteschi coccodrilli scolpiti nel legno di sandalo, canoe cerimoniali e da guerra. E ancora, come si è visto, monili, copricapi e perfino vestiti sontuosi per le cerimonie funebri. Era ed è tuttora arte quella dei tatuaggi, che assume svariati significati simbolici a seconda degli arcipelaghi. Alle Samoa, ma anche a Tahiti, alle Tonga e alle Marchesi, chi la pratica incidendo sulla pelle complessi disegni, agisce seguendo solenni riti come un sacerdote; chi la riceve sul proprio corpo, spesso a fronte di estenuanti sedute e sofferenze, affronta un rito iniziatico, una prova di coraggio e forza, che conferma il passaggio all’età adulta; ciò accade, per esempio, con il pe’a, il tipico tatuaggio, dolorosissimo, praticato su precise zone del corpo ai giovani samoani. E così, anche, nei moko della Nuova Zelanda, disegnati su tutto il volto.


interno di un tambaran (casa degli uomini iniziati e degli spiriti); Kanganama, Sepik (Papua Nuova Guinea).