Con il volgere del secolo la situazione mutò e fino alla sua morte (avvenuta intorno al 1318) lo scultore soggiornò piuttosto stabilmente a Pisa, dove fece fronte a numerosi impegni.
Il 14 dicembre 1297, infatti, Giovanni era stato nominato “caputmagister” dell’Opera del duomo, l’istituzione che sovrintendeva all’erezione e alla cura delle fabbriche architettoniche dipendenti dalla cattedrale pisana: un incarico che lo rendeva di fatto il responsabile - e non solo l’artefice in senso stretto - delle molte imprese avviate da Burgundio di Tado che, col titolo di Operaio, dal 1298 fino al 1319, ne fu il regista “politico” e amministrativo.È verosimile che, tra la fine del Duecento e l’inizio del Trecento, Giovanni, alla testa di una grande maestranza di scalpellini e muratori, si sia trovato a dirigere anche il cantiere del Camposanto, il monumentale cimitero fondato nel 1277 dall’arcivescovo pisano Federico Visconti per trasferirvi le sepolture che, in ordine sparso e spesso in stato di abbandono, circondavano la cattedrale fin dal momento della sua fondazione (1063). Riconoscere il suo intervento, però, non è semplice, dato che l’edificio avrebbe assunto l’aspetto attuale solo agli inizi del Quattrocento; verosimilmente, però, a inizio Trecento ne era già stato completato un primo nucleo, quella «Ecclesia Sancte Trinitatis» che, ricordata nei documenti, oggi non è più visibile, anche perché in parte inglobata nel Camposanto.
Resta aperto il problema di una vera e propria attività di Giovanni come architetto. A volte si tratta di ipotesi della critica (la chiesa di San Domenico a Perugia), ma altri casi sono meglio argomentabili: si pensi alla prosecuzione dei lavori all’esterno del battistero di Pisa e agli interventi, rispettivamente, di Massa Marittima e forse di San Quirico d’Orcia, tutti cantieri di natura tanto scultorea quanto propriamente architettonica. Competenze “ingegneristiche”, a ogni modo, dovette averne e dovevano essere note: nel 1298 Giovanni attendeva infatti con altri maestri alla misurazione della pendenza del campanile della cattedrale pisana (quello che oggi è universalmente noto come Torre di Pisa, iniziata nel 1173 da Bonanno Pisano), che da tempo aveva denunciato problemi di ordine statico.
I lavori di riordino della piazza, comunque, procedevano: le operazioni di sterro e spostamento delle sepolture andavano infatti di pari passo con la realizzazione di uno zoccolo marmoreo in forma di gradino che perimetrava il duomo. Per accentuarne la monumentalità, ne era stata prevista una decorazione scultorea che fu affidata a Giovanni e alla sua bottega: si trattava di una serie continua di rilievi - detti “gradule”- con motivi fitomorfi e teste umane, zoomorfe e mostruose, inquadrati in cornici rettangolari. L’insieme di queste figure, colte in atteggiamenti diversi ma sempre assai animate, costituisce, non solo in senso iconografico ma anche tipologico - trattandosi di una sorta di bordura - quanto di più vicino alla “drôlerie” gotico-oltralpina si possa riscontrare nella produzione giovannea: quello spirito che ritroviamo, per esempio, nelle oreficerie senesi tra Due e Trecento. Questi rilievi furono rimossi nel 1857 perché dissestati e le porzioni sopravvissute, assai consunte, sono oggi esposte presso il Museo dell’Opera del duomo di Pisa.
Appunto per l’Opera, e più precisamente per la cattedrale, Giovanni realizzò alprincipio del principio del Trecento una delle imprese più impegnative della sua carriera: un nuovo, monumentale pulpito marmoreo, configurato come una struttura autonoma, elevata su colonne.Destinato alla lettura delle Sacre scritture, era munito di due leggii; posto alla destra del recinto presbiteriale, ne sostituiva uno precedente - eseguito nel 1159-1162 da maestro Guglielmo -, che fu trasferito in quell’occasione nel duomo di Cagliari, nella parte di Sardegna allora controllata dai pisani.
Fu approntato, con pause e interruzioni, tra il 1301-1302 e il 1310; smontato nel 1595 dopo un disastroso incendio che funestò l’edificio, divise e riutilizzate in maniere differenti le sue parti, fu ricomposto in duomo solo nel 1926, nella sua attuale configurazione, probabilmente non del tutto conforme a quella originale. Si pone in linea di continuità con i pulpiti creati da Nicola Pisano (per il battistero di Pisa, 1258-1260, e per la cattedrale di Siena, 1265-1268) e con quello realizzato da Giovanni stesso per Pistoia (1298-1301), costituendone tuttavia un ulteriore sviluppo. Da un lato, infatti, rispetto a questi precedenti, il numero dei rilievi narrativi che circondano la cassa aumenta e sale a nove (sette disposti in maniera poligonale e due a fiancheggiare il ballatoio di accesso) mentre il loro profilo diviene curvo, per cui la forma del pulpito si approssima a quella di un anello in cui le specchiature si leggono in maniera continua. Al contempo, Giovanni trasforma l’intera struttura in una sorta di macro-scultura: alle sei colonne che reggono la cassa, di cui due poggianti su energici leoni stilofori che conculcano le loro prede, si accompagnano cinque sostegni figurati. Queste maestose cariatidi costituiscono la novità più vistosa di tutto l’insieme e il segno, da parte di Giovanni, di un interesse ininterrotto per il tema della statua libera di matrice classica: ormai abbandonata la consueta, insistita, violenta animazione dinamica tipica delle figure giovannee, le cariatidi pisane si fanno invece portatrici di un’emotività calma e riflessiva e con la loro stessa presenza, fisica e psicologica, quasi fossero persone di pietra, inducono lo spettatore a instaurare con la storia sacra un rapporto intimo e personale. Tra di esse spiccano l’immagine allegorica polisemica, snella ed elastica, della Pisa-Ecclesia-Caritas, con i due putti nervosi che suggono dal seno materno, e soprattutto il monumentale nudo sessuato di Ercole; qui le regole compositive della “ponderatio” e del contrapposto, ben lungi dall’attribuire un’aura di classica serenità alla figura, conferiscono invece all’eroe un atteggiamento malinconico, da profeta biblico, e la sua fisicità, atletica ma a un tempo asciutta, quasi prosciugata, tradisce con un brivido di sottile inquietudine il controverso rapporto di Giovanni Pisano con l’Antichità


