la fase iniziale dell’arte buddhista è infatti definita “aniconica”, nel senso che, nella splendida scultura che orna gli stupa di Bharhut e di Sanchi o i complessi rupestri più antichi, fatte salve eventuali aggiunte posteriori, il Buddha non è raffigurato in forma umana, ma la sua presenza nei rilievi è indicata solo per mezzo di simboli come le impronte dei piedi, il parasole che sovrasta canonicamente i sovrani, un trono vuoto e l’albero sotto il quale è avvenuta la bodhi, l’Illuminazione. Un aniconismo totale connotava del resto tutto il periodo vedico-brahmanico precedente, quando gli antichi dèi - Varuna, Indra, Agni, e così via - non abitavano per così dire in luoghi fissi, e non erano raffigurati in alcun modo, ma erano evocati per mezzo della parola sacra e del culto presso altari appositamente costruiti per i riti sacrificali, eventi cruciali di questa religiosità antica e destinata alla decadenza.
I motivi dell’iniziale avversione verso la raffigurazione antropomorfa del Buddha e del successivo mutamento risiedono verosimilmente nelle dottrine
stesse e nella loro evoluzione. Al buddhismo di prima formulazione, il cosiddetto Theravada (“Dottrina degli anziani”, o Hinayana, “Veicolo
minore”), di impronta più austera, all’inizio dell’era comune si affianca e acquista via via popolarità il Mahayana (“Grande veicolo”), dotato di
attrattiva maggiore per i laici. Presto era sorta l’idea che anteriormente a Shakyamuni fossero vissuti altri Buddha, dall’analogo percorso di
ricerca e conquista spirituale; ma per le dottrine Theravada gli Illuminati restano, in sostanza, inaccessibili, in quanto ormai dissolti nel
nirvana. Il Mahayana da una parte moltiplica i Buddha, dall’altra elabora la concezione che, sebbene nell’essenza ultraterreni, essi
possiedono anche un corpo materiale e tangibile con il quale si manifestano nel mondo. In aggiunta, acquistano vasta popolarità le figure dei
Bodhisattva (“La cui essenza è l’Illuminazione”), esseri di perfezione estrema che rimandano però il nirvana per aiutare gli uomini comuni
nella soppressione del dolore che, secondo i principi fondamentali del buddhismo, caratterizza in modo inesorabile la vita terrena.
