Nel maggio del 1940 il Terzo Reich invade il Belgio, che si era dichiarato neutrale, trovando un’inaspettata resistenza. Ma dopo soli diciotto giorni il paese è in mano nazista. Felix Nussbaum, ebreo tedesco che si era rifugiato a Bruxelles proprio per sfuggire al nazismo, viene arrestato dalla Gendarmerie con la qualifica di «alieno ostile». Finirà, dopo mille traversie, nel campo di prigionia di Saint-Cyprien, nella Francia di Vichy, insieme ad altri seimila espatriati, molti dei quali ebrei. Un campo profughi militarizzato, costruito frettolosamente sulla spiaggia, dove già erano stati ammassati un anno prima i fuoriusciti spagnoli, nonché gli animali degli allevatori. Rovente d’estate, gelido d’inverno. Nel campo, privo di corrente elettrica, infestato di cimici, che il poeta tedesco Walter Mehring chiamerà «l’inferno dei Pirenei», Felix scopre l’orrore della segregazione, realizzando in seguito alcune opere dedicate a quella esperienza che ti spezzano il cuore. E che dovrebbero farci sentire più vicini ai profughi di Lesbo e Lampedusa. Firma quindi la richiesta alle autorità francesi del campo per essere restituito alla Germania. Preferisce una morte probabile a quella detenzione.
Mentre è sul treno che da Saint- Cyprien lo riporterà in Germania, riesce però a fuggire e a raggiungere in maniera rocambolesca Bruxelles, dov’era
rimasta nascosta la sua adorata moglie, la pittrice polacca Felka Platek.
I Nussbaum non hanno alcun reddito, ma gli amici di Felix - in particolare lo scultore Dolf Ledel - forniscono riparo, permettendogli di continuare a
dipingere insieme alla consorte, comprandogli tele e colori. Sono quattro anni di solitudine, alienazione, terrore, clandestinità, che gli permettono di
raccontare e documentare la paura di quegli anni come nessun altro sarebbe stato in grado di fare.