Architettura per l'arte IN VOLO UN’OPERA di Aldo Colonetti Leggerezza, cura dei dettagli, forme organiche per il Centro Botín, primo progetto spagnolo di Renzo Piano con lo studio madrileno Luis Vidal, inaugurato a giugno 2017 n un libro recente dedicato alla formazione di Renzo Piano - dal titolo emblematico , di Lorenzo Ciccarelli, sulla ricerca e le prime opere dell’architetto genovese nel periodo precedente al progetto realizzato con Richard Rogers, il concorso assegnato nel 1971 per il Centre Pompidou di Parigi, noto anche come Beaubourg (dal nome del quartiere in cui è stato inaugurato nel 1977) - emerge con grande chiarezza l’identità del lavoro di Piano. Al centro il concetto di modularità compositiva, sorretta sempre da adeguate soluzioni strutturali di derivazione ingegneristica, il tutto però finalizzato al disegno di architetture flessibili, ma capaci di avere un proprio linguaggio espressivo, riconoscibile dovunque, senza mai però cadere in una forma di «stilismo autoreferenziale». Un’architettura sempre diversa, inscritta comunque in un percorso identitario. I Renzo Piano prima di Renzo Piano Questo approccio è lo stesso utilizzato anche per il sorprendente Centro Botín, voluto dal presidente del Banco Santander, Emilio Botín (1934-2014), inaugurato a Santander, nel Nord della Spagna, a giugno del 2017. I due volumi che ospitano la struttura, il primo a oriente (con un auditorium e un polo didattico), l’altro, a occidente (con le gallerie espositive), sono collegati tra loro per mezzo di un piano di attraversamento - sullo sfondo il mare e alle spalle la città - realizzando una sorta di “astronave” improvvisamente atterrata in uno spazio di una vecchia città di mare, portando con sé sapere e curiosità. Tutte le immagini di questo articolo riguardano il Centro Botín a Santander (Spagna), progettato da Renzo Piano in collaborazione con Luis Vidal + Architects (Madrid) e realizzato tra il 2010 e il 2017. schizzo di Renzo Piano da cui ha avuto inizio il progetto del Centro Botín. Come dice lo stesso Piano, autore del progetto in collaborazione con lo studio Luis Vidal di Madrid, «da architetto, credo che il luogo influenzi ogni percezione, ogni emozione, ogni attività umana. In questo caso, due sono stati i principi progettuali dai quali sono partito: fare in modo che la nuova architettura fosse rialzata rispetto al terreno per non impedire visivamente la relazione tra la città e il mare, e in secondo luogo rispettare una sorta di linea immaginaria che direttamente scende dalla città verso l’acqua, al centro della quale è insediato il Centro Botín. Solo così, credo sia possibile dialogare tra la storia e un nuovo edificio che, in questo caso, deve parlare agli abitanti, essere utile culturalmente, il tutto risolto con un linguaggio compositivo che, comunque, viene dal futuro». Due volumi che dialogano tra loro, ricoperti da duecentoottantamila formelle di ceramica, trattate con una patina madreperlacea che con la luce cambia di colore: rosso al tramonto, blu dopo la pioggia e bianco latte d’inverno. Nella prima opera spagnola disegnata da Piano sono evidenti alcuni aspetti già noti della sua cultura compositiva. La leggerezza: questa architettura sembra volare; gli interni chiari e razionali, rispettosi delle funzioni; la cura dei dettagli; la costante ripresa di tutti quegli elementi costruttivi che derivano dalla cultura del mare e soprattutto da chi naviga, come Piano, a vela. Contemporaneamente, le forme quasi organiche dei due volumi, separati ma appartenenti a un’idea progettuale unitaria, si presentano come nuove rispetto alla sua tradizione architettonica. Come se a Santander avesse voluto rimettere in circolo alcune frequentazioni culturali giovanili, in modo particolare le ricerche e le opere di Richard Buckminster Fuller che, negli anni in cui Piano sbarca per la prima volta al di là dell’Atlantico, a Filadelfia (1969), «era all’apice della fama con l’imponente cupola geodetica del padiglione degli Stati Uniti all’Esposizione universale di Montréal del 1967», come precisa giustamente Ciccarelli nel libro citato. Tutto questo per dimostrare che le opere di un grande architetto non possono fare a meno di dialogare sia con il tempo e lo spazio dell’opera sia con la propria biografia culturale che, nel caso di Piano, è sempre stata “eclettica” e soprattutto antiaccademica. Per questa ragione, avremo in futuro ancora progetti “sorprendenti”, riconoscibili ma nello stesso tempo inaspettati, perché tante e ricche di percorsi originali sono le tappe della sua formazione.