Èil 1980, la fotografia è ormai entrata a pieno titolo tra i linguaggi dell’arte contemporanea, grazie anche all’ampio uso che nei due decenni precedenti ne hanno fatto gli artisti concettuali sia per documentare opere, azioni e gesti transitori, sia per sperimentare nuove forme e generi. In quell’anno, Sol LeWitt (Hartford, 1928 - New York, 2007), che dell’arte concettuale è stato uno dei padri, con quei Paragraphs on Conceptual Art che nel 1967 ne gettarono le basi teoriche, si apprestava a lasciare New York per Spoleto, dove da allora avrebbe a lungo soggiornato, eleggendola a sua seconda casa. Come portare via un ricordo della sua vita newyorchese? Semplice: ricorrendo a un libro dove documentare, al pari di un album fotografico, tutto ciò che lui stesso aveva accumulato nello spazio dove aveva vissuto e lavorato per quasi trent’anni.
Nacque pressappoco così - almeno questa è la vulgata - l’idea per Autobiography, un piccolo libro quadrato dalle pagine suddivise in griglie con nove
foto in bianco e nero ciascuna: una mappatura, attraverso gli oggetti del suo quotidiano, della casa-studio in Hester Street, nel Lower East Side di
Manhattan, dove LeWitt si era stabilito fin dall’arrivo a New York nel 1953. In questo libro-catalogo tutto è messo sullo stesso piano: libri, attrezzi
del mestiere, ninnoli, stoviglie. Nessun oggetto ha più importanza di un altro, ogni cosa contribuisce a comporre, secondo una logica
antropologico-etnografica, un meticoloso autoritratto dell’artista, che così ha spiegato il progetto: «Se avessi fotografato tutto ciò che faceva parte
della mia vita, dello spazio in cui vivevo, tutti avrebbero capito la mia vita vera. Nel loft c’era tutto… le mie pentole, le mie forbici, i tostapane,
gli strumenti per dipingere, cartoline, disegni, libri, nastri e dischi, e oggetti che la gente mi spediva o che io raccoglievo e dappertutto c’erano
lavori realizzati da me e tutti insieme formavano la mia autobiografia»(1).