Povero Gio Ponti, immenso architetto ed eclettico inventore (1891-1971): se le sue creazioni per la manifattura Richard-Ginori di Doccia (Sesto Fiorentino, Firenze) sono state salvate in tempo (il Ministero dei Beni culturali ha da poco acquistato, permutandoli con le imposte dovute, tutte le porcellane e l’intero museo dell’azienda che era fallita), due suoi capolavori assoluti giacciono invece in crisi profonda, per motivi che non è dato di capire nella loro intera complessità; e quindi, si trasformano in altrettante “spy story” della bellezza dimenticata e negata.
Siamo a Taranto e a Forlì, per due realizzazioni abbastanza rare nella tipologia della produzione di Ponti. Che, però, per sopravvivere, necessitano di
profondi interventi, e di manutenzione. Non solo: quella pugliese costituisce anche il suo passo d’addio. È l’ultima opera nella penisola, seguita
unicamente dall’Art Museum a Denver: l’avveniristica concattedrale della città, intitolata alla Gran Madre di Dio, diventata famosa almeno quanto il suo
grattacielo Pirelli, il più alto in Europa dal 1958 al 1966, e uno tra i simboli (lo è ancora, o lo era?) di Milano.

Dopo un progetto per una chiesa evangelica a Milano nel 1935, e un altro tra il 1955 e il 1960, Ponti realizza tre edifici sacri, di cui due a Milano; e ne progetta un altro, a Los Angeles. Quello di Taranto è pensato dal 1964 (dopo la rinuncia di Pier Luigi Nervi, che propone lui come progettista), intrapreso nel 1967 e aperto dal 1970. È privo di una cupola: la sostituisce un doppio muro traforato alto 40 metri; un “pendant” della facciata lunga 87 metri, analogamente traforata. Le aperture del doppio muro, diceva lui, erano state create «perché gli angeli vi potessero sostare».
L’insieme evoca la tradizione marinara della città: la vela al posto della cupola è una facciata sul cielo. All’inaugurazione (dieci minuti di applausi al suo discorso), l’architetto spiegava: «Ho pensato due facciate. La minore, salendo la scalinata, con le porte per accedere alla chiesa.