per Franco Fontana la fotografia è un pretesto per testimoniare la sua visione del mondo, espressa attraverso una fascinazione legata a quanto di
invisibile si nasconde dietro al paesaggio (così come appare) e al mistero del colore: «Fotografare è un atto di conoscenza: è possedere. Quello
che si fotografa non sono immagini ma è una riproduzione di noi stessi. La creatività non illustra, non imita, ma interpreta diventando la ricerca
della verità ideale. La fotografia creativa non deve riprodurre ma interpretare rendendo visibile l’invisibile». Molte sue immagini sono
astrazioni interiori, incontrate e riconosciute nel paesaggio. Esemplari sono gli orizzonti marini, fotografati dal 1962, colti in rapporti
elegiaci tra i colori del cielo e del mare, che ricordano opere astratte, soprattutto dell’ultimo periodo di Mark Rothko. Pur rifacendosi a
una tradizione di matrice pittorica, Fontana lascia intendere con i suoi scatti che ognuno dev’essere testimone di quello che vede, in modo
personale, e spostare ulteriormente altre questioni, domande, approfondimenti, per indagare ciò che sta oltre il velo della prima impressione. I
suoi orizzonti marini sono notevoli esempi di quanto si è appena detto, di “abstrait trouvé”, visioni di un mondo interiore, intimo, quasi
sacrale, ritrovato nella natura. Nel 1980 questa modalità affascina anche Hiroshi Sugimoto, nella serie Seascapes, declinata in bianco e nero, ma
con altri riferimenti derivati dalla sua cultura e dalla tradizione giapponese.
Orizzonti marini colti in rapporti elegiaci
tra i colori del cielo e del mare
La complessità cromatica visibile nelle fotografie di Fontana, invece, è da leggere come qualcosa che viene emanato nella co-azione fra paesaggio,
sensazioni fisiologiche, emozioni e interpretazioni psicologiche, dentro un divenire che genera vita. E il colore poi si fa spazio nella natura, nelle
città, nelle strutture architettoniche, nelle strade, nei segni del tempo. La figura umana, nel paesaggio urbano, è una parte funzionale al tutto.
Molto spesso è presente in negativo, in forme d’ombre, lì a fungere da simulacro della presenza-assenza, come se Fontana volesse necessariamente
sottrarre qualcosa in funzione di equilibri e di rapporti cromatici e luminosi, per comprendere un universo ancora sconosciuto. E le sue fotografie
testimoniano la vita che svolge in superficie la sua non superficialità: rivelano qualcosa che può essere colto nella semplice complessità del
reale, che continua a reiterare accadimenti quotidiani nella mutevolezza, con lievi variazioni. Per Fontana capire il rapporto poetico fra forma,
colore, spazio e tempo significa trovare una chiave di lettura indispensabile: «La forma è la chiave dell’esistenza, ed io cerco di esprimerla
fotografando lo spazio, in correlazione con le cose coinvolte in esso. Lo spazio non è ciò che contiene la cosa ma ciò che emerge in relazione alla
cosa. Tutto ciò che ci circonda può venire ripreso per essere testimoniato con significato. Non si può conoscere l’essenza delle cose se si crede che
un fiore sia solo un fiore, che una nuvola sia solo una nuvola, che il mare sia solo il mare: vorrebbe dire che la conoscenza si limita alla
superficie, mentre l’esistenza risiede nel contenuto».