LA MIA AMERICA
Era nato nel 1910 nella Trieste austroungarica di Joyce e Svevo. Studioso di estetica, critico d’arte, artista (l’ultima sua mostra alla Triennale di
Milano è stata nel gennaio scorso), Dorfles è stato testimone dei rinnovamenti culturali dell’intero Novecento, di qua e di là dall’Atlantico. Li ha
discussi, studiati, anche criticati. Il 12 aprile avrebbe compiuto centootto anni. Se ne è andato, invece, il 3 marzo, quando questo libro era in
stampa. Dei suoi scritti recenti si è parlato spesso in questa rubrica, ma è la prima volta che capita di recensirlo dopo la sua scomparsa. Ne vale la
pena, forse più di sempre, non solo e non tanto perché non c’è più (dispiace anzi non poterne parlare con lui) ma soprattutto perché questa raccolta
di articoli e conferenze sugli Stati Uniti meritava in assoluto di essere riunita. E ben ha fatto Luigi Sansone ad arricchirla di una documentata
prefazione. Il primo dei molti soggiorni di Dorfles negli Stati Uniti risale al tardo 1953, quando fu invitato dal governo americano per uno scambio
fra studiosi. Le lettere alla moglie sono le più spontanee testimonianze di quel viaggio, che in quattro mesi lo portò a visitare musei, centri
culturali, università, e a conoscere artisti, architetti, critici coi quali strinse legami duraturi. Con i mezzi più vari, principalmente in treno,
passò dalla East alla West Coast, da nord a sud e infine risalì verso ovest per tornare a New York. Oltre ad artisti come Rothko e De Kooning o
architetti come Johnson e Wright, sui quali poi scrisse a lungo, incontrò direttori di musei, critici e filosofi come Arnheim, Munro, Greenberg.
Rivide anche un amico triestino di gioventù, quel Leo Castelli che stava diventando il più influente gallerista newyorchese. Vi tornò molte volte, per
convegni, “lectures” e mostre. Prima che Calvino dichiarasse l’amore viscerale per gli Stati Uniti, Dorfles poteva già scrivere: «Tornare a New York
significa ritrovare scarpe comode dimenticate in un armadio […] il tutto sovrapposto all’immensità cristallina d’un territorio solo in parte
umanizzato». È uno dei suoi saggi più poetici:
Scendo dai grattacieli, 1956.